Ci vuole davvero un cuore di pietra per infierire ancora una volta su Piero Fassino, dopo la sua ennesima, maldestra, donchisciottesca invettiva contro l’antipolitica. Qui però non si tratta di infierire, semmai di inferire, da quella singolare performance, una tendenza più generale, un fenomeno politico-sociologico più profondo, che riguarda tutta quell’area politica, un tempo largamente maggioritaria, almeno a sinistra, che per brevità chiameremo riformista.
Parlo di performance, perché non saprei davvero come altro definire l’intervento in aula durante il quale, sventolando il cedolino, l’ex segretario dei Ds, ex sindaco di Torino e attuale parlamentare del Partito democratico ha scandito che 4.718 euro non sono certo uno «stipendio d’oro».
Non si tratta di giudicare, ma di capire. Anche perché, nel merito, Fassino ha molte buone ragioni (al di là delle stucchevoli polemiche su quanta parte dei diecimila euro lordi vada effettivamente ai collaboratori, al rimborso dell’attività parlamentare o ai contributi pensionistici), come ha pazientemente dimostrato anche ieri, dopo le non imprevedibili polemiche suscitate dalle sue parole, dopo le facilissime ironie degli avversari sul suo «salario minimo» e pure dopo l’inelegante (e tantomeno imprevedibile) presa di distanze della segretaria del Partito democratico, Elly Schlein. «Ho semplicemente detto ai miei colleghi parlamentari: attenzione, la nostra indennità non è quella di cui spesso si parla», si è difeso il reprobo.
Senza dubbio l’antipolitica, specialmente quando agitata da politici senza idee e senza spina dorsale, ha fatto e continua a fare danni incalcolabili. Cercare di contrastarla dovrebbe essere quindi motivo di lode. Mai battaglia più giusta è stata condotta però in modo più impopolare, scegliendo un’occasione meno adatta, utilizzando delle parole e dei gesti più incongrui, per produrre un esito più controproducente di quello ottenuto da Fassino.
Eppure si tratta dello stesso Fassino che da oltre un decennio viene ingiustamente crocifisso ad alcune sfortunate uscite, le sue ormai celebri «profezie», legate proprio a questa infaticabile lotta contro l’antipolitica e la facile demagogia. La prima dichiarazione destinata a venirgli rinfacciata è del 2009: «Se Grillo vuole fare politica, fondi un partito, metta in piedi un’organizzazione, si presenti alle elezioni, vediamo quanti voti prende» (alle successive politiche, nel 2013, il Movimento 5 stelle prenderà il venticinque per cento); la seconda è del 2015, da sindaco di Torino, rivolto alla consigliera di opposizione Chiara Appendino: «Io mi auguro che un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se poi sarà capace di fare tutto quello oggi ha fantasticato di poter fare» (alle successive amministrative, nel 2016, Appendino sarà eletta sindaco).
Cosa spinge dunque un uomo nella posizione di Fassino, con la storia di Fassino, con tutti i meme, i tweet e gli sberleffi (ingiustamente) accumulati da Fassino, a chiedere di intervenire apposta, in aula, per annunciare la sua astensione nel voto sul bilancio della Camera e immolarsi in quel modo, attraverso le telecamere, sulla pubblica piazza? Era così difficile prevedere le reazioni che quella scelta, quelle parole e quei gesti avrebbero suscitato? Non sarebbe stato difficile prevederle per nessuno, ancor meno avrebbe dovuto esserlo per lui. Come spiegare dunque un simile comportamento?
Guardando a quanto accade nel frattempo tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, sulle ceneri del Terzo polo, e avendo già assistito all’incredibile suicidio collettivo dei riformisti all’ultimo congresso del Partito democratico, viene da pensare che dietro questo cupio dissolvi vi sia qualcosa che va oltre i caratteri, i personalismi e i narcisismi individuali.
Nel 2016 Renzi portava le più illustri personalità dell’Italia alla cena d’onore organizzata alla Casa Bianca di Barack Obama, oggi manda (o lascia andare) le più illustri personalità di Italia Viva al tavolo del Twiga di Daniela Santanchè. Ma sono lontanissimi anche i tempi delle polemiche sulle sue visite ad Arcore o sul famigerato patto del Nazareno. Cose peraltro assai diverse, ma destinate inevitabilmente a confondersi e scolorire nel finale a torte in faccia tipico di tutte le brutte commedie. Un finale che rende ancora più grama la vita di chi nonostante tutto vorrebbe ostinarsi a distinguere, separare le critiche fondate dalle demonizzazioni interessate e restituire un minimo di senso a una vicenda altrimenti sempre più incomprensibile e indecifrabile.
In una politica italiana che già di suo non brilla per capacità di rinnovarsi e di stabilire più forti legami con la società, la coazione a ripetere di cui i riformisti sembrano prigionieri è insieme causa e conseguenza del loro progressivo scollamento dalla realtà. Il problema è che la realtà da cui si distaccano, e che lasciano dunque perfettamente intatta, è tutt’altro che soddisfacente.