Capita di definirsi in base alle rotture. Capita cioè di definirsi in base a ciò che ci lascia, più che a ciò che ci trova. È il caso della protagonista di Un amour de jeunesse di Mia Hansen Løve, ad esempio, in cui la protagonista comincia la sua vita o, più specificatamente, il suo processo di individuazione, quando viene abbandonata dal primo ragazzo di cui si innamora, tra i quindici e i sedici anni. La ferita, il senso di separazione, il dolore dettato dall’incomprensione la segnano a tal punto che la inseguiranno sempre, ovunque, in tutti i rapporti che imbastirà in futuro. Con una parte di sé resta innamorata del ragazzo adolescente che se n’è andato e quando lui ritorna i sentimenti si sollevano un’altra volta, in maniera identica, nonostante entrambi siano adulti, cresciuti, diversi. Li aveva come tenuti in serbo in un punto precisato della sua anima, perché a partire da essi è diventata ciò che è.
Ma quando a lasciare, a tradire è un’amicizia? Normalmente la cinematografia si è concentrata sulle storie d’amore, sulla relazione a sfondo erotico e sessuale. Certo, C’era una volta in America si snoda intorno al rapporto tra due amici d’infanzia che si ritrovano dopo molti anni, ma il motore di tutte le narrazioni, di tutti i grandi racconti rimane l’anelito amoroso: le dinamiche che regolano le coppie, intese come microcosmi, cosmogonie che racchiudono e riassumono, su scala ridotta, le principali proiezioni di ciascuno di noi.
Greta Gerwig, invece, in tempi non sospetti, scriveva la sceneggiatura del film Frances Ha, diretto da Noah Baumbach, e descriveva proprio questo: lo scompenso dettato dalla fine di un’amicizia tra donne. Era il 2012 e nessuno immaginava il successo che avrebbe riscosso più di dieci anni più tardi con Barbie, di cui questa estate tutti hanno parlato e di cui tutti parleranno ancora, se è vero che sarà candidato agli Oscar. Eppure già si intuiva la sua postura, la sua originalità. Soprattutto si intuiva la struttura di personalità che avrebbe poi affidato a tutte le sue protagoniste successive: da quella di Lady bird (2017) a Jo di Piccole donne (2019), entrambe interpretate da Saoirse Ronan. Il prototipo femminile che Gerwig predilige è sciamannato, infiammato e anticonformista.
Frances di Frances Ha passeggia per le strade di Manhattan con i capelli raccolti a casaccio, in ritardo agli appuntamenti, sempre dimentica di qualcosa di importante, scomposta, saltando le strisce pedonali come farebbe una bambina di non più di dieci anni. Si aggira alle feste indossando i fuseaux con in mano una birra da mezzo litro. Lei e Sophie condividono lo stesso appartamento, sono coinquiline e amiche del cuore dai tempi universitari. Hanno ventisette anni, la prima sogna di diventare una ballerina, l’altra lavora in una casa editrice. Esponenti di una generazione precaria, ansiosa, permanentemente in conflitto, la loro alleanza diventa una sponda, un braccio al quale tenersi, un luogo rassicurante, tenero e un po’ sboccato, in cui di fatto converge l’affettività di entrambe. Esso prescinde e supera perfino i legami con gli uomini, almeno nel caso di Frances, la quale rifiuta decisamente la proposta del fidanzato di trasferirsi a vivere insieme a lui. «Sei uscita dalla tua prigione», commenta Sophie quando si lasciano.
Le due corrono attraverso gli incroci della città, scendono in metropolitana, vanno alle feste, si addormentano con la testa appoggiata l’una alle gambe dell’altra sui tassì, raccontano di esperienze sessuali mentre si struccano, in bagno, prima di andare a letto. Hanno impostato dei rituali, degli schemi, delle abitudini che le rendono simili a una coppia di fatto. E non ci sarebbe niente di male in questo, se non fosse che la società interviene con i suoi regimi, con le sue pretese di normalità, o meglio, di normalizzazione: Sophie inizia una relazione, cresce, matura, va ad abitare in un quartiere più costoso, in un appartamento più grande e rompe l’equilibrio di sorellanza.
Da quel momento, Frances sprofonda in una solitudine sconcertata, che non si raccapezza, non può raccapezzarsi: dopotutto dovrebbe essere felice per la sua amica, le distanze tra loro dovrebbero essere naturali, spontanee, occorre che ciascuna abbia la propria esistenza, il proprio percorso. Dunque, perché quella sofferenza? Perché l’incapacità di accettare i successi, lo scarto, l’allontanamento dell’altra? «Ci siamo conosciute all’università. Eravamo la stessa persona», spiega. «Solo che io ho i capelli diversi». Privata della simbiosi con Sophie, Frances piomba improvvisamente in tutti i cunicoli, i tombini, le buche della vita metropolitana quando si è giovani e si hanno aspirazioni non comuni: divide l’affitto con due sconosciuti, «butta via» le giornate, non riesce a risparmiare, perde il posto nel corpo di ballo, parte per un paio di giorni a Parigi, da sola, per poi realizzare che non ha alcun senso, che ha soltanto sprecato un sacco di denaro. E di sottofondo, sempre, la continua nostalgia di Sophie, o forse di un “prima” vago, labile, non ben definito, che coincide con l’infanzia, con un tempo più semplice e autentico, dove poteva essere semplicemente se stessa.
Quando Sophie litiga con quello che ormai è a tutti gli effetti suo marito, si rifugia da Frances, le dice che non è felice e che lo lascerà, fantasticano sulla possibilità idi tornare a vivere insieme, nello stesso appartamento, come prima, come una volta. Ma il mattino porta con sé il freddo raziocinio dell’età adulta, Sophie si risveglia, lascia un biglietto in cui scrive che era ubriaca e di telefonarle presto. Frances e Sophie sono descritte alla stregua di due persone che non stanno più insieme e in effetti è così: chi non ha sperimentato il lutto per la perdita di un amico, un lutto inesprimibile perché colpevole, dato che l’amicizia si basa sul presupposto fallace della non esclusività, del lasciare andare, del lasciare liberi?
E come accade quando una storia d’amore finisce, è la vita a livellare, aggiustare, appianare. Quel che è stato non torna più. Bisogna rassegnarsi a evolvere, a mutare, a tirare dritto. Anche se con una porzione di sé si resta bambini, intenti a produrre congetture, ipotesi, illazioni sul proprio futuro, esprimendole a voce alta a qualcuno a cui si vuole bene e che non si separa mai da noi: «Noi due conquisteremo il mondo. Tu diventerai un boss stronzo dell’editoria. E tu una famosa ballerina moderna e io pubblicherò un libro costosissimo su di te. Che quegli stronzi che prendiamo in giro metteranno sui loro tavolini. E avremo un appartamento per le vacanze a Parigi. E non avremo amanti. E nemmeno figli. E parleremo alle lauree onorarie».