Asteroid City e il metacinemaDa Robert Wiene a Wes Anderson: quando il cinema va oltre lo spazio (fisico)

Quando gli attori non potevano ancora usare la propria voce, erano i luoghi a raccontare al pubblico il loro mondo interiore. Da allora architettura e cinema non hanno mai smesso di influenzarsi e diventare metafora l’una dell’altro. Per alcuni registi il connubio è più forte che mai

Asteroid City. Courtesy of Pop. 87 Productions. Credits: Universal Pictures

L’uomo abita i luoghi, ma è vero anche il contrario. Lo sperimentiamo ogni qual volta usciamo di casa e la percezione di ogni dettaglio della città, di ogni colonna o via, muta col variare delle nostre emozioni, dandoci l’impressione di starci muovendo in uno spazio indefinito, tra vita e costruzione.

Nel cinema questa connessione viene magnificata dai registi da sempre: per la prima volta 1920, sul set dell’emblematico film muto Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, dove secondo l’architetto e teorico Juhani Pallasmaa gli angoli, le ombre e le prospettive presentano una «fantastica architettura sospesa tra sogno e realtà». Da questo momento in poi, nel cinema, l’architettura ha assunto un ruolo che va oltre quello di semplice sfondo. Essa è diventata un elemento simbolico e metaforico, un protagonista a sé stante. Non più solo un luogo dove si svolge l’azione, ma che riflette e influenza lo stato d’animo dei personaggi e, di conseguenza, del pubblico.

Il Gabinetto del dottor Caligari, diretto da Robert Wiene, 1920

Prendiamo per esempio la splendida ma fredda e vuota Villa Malaparte, nel film Le Mépris (1963) di Jean-Luc Godard; nell’opera, essa riflette il crescente divario amoroso tra Paul e Camille. Oppure le strade sporche e fumose di Brooklyn raffigurate da Sergio Leone, riproposte in Once Upon a Time in America (1980), specchio dell’innocenza corrotta di Noodles e dei suoi amici gangster. E poi c’è il più recente Parasite (2019), dove il concetto di casa – sia quella squallida della famiglia Kim che la lussuosa dei Park, progettata da un famoso architetto – diventa l’escamotage per far emergere la disparità sociale tra le due famiglie protagoniste.

Parasite, diretto da Bong Joon-ho, 2019

A questo sfaccettato dialogo tra le due discipline, architettura e cinema, Wes Anderson ha preso parte fin dall’inizio della sua carriera. E non senza mutarlo drasticamente. Di fronte a un suo film, parafrasando il critico Peter Bogdanovich, è impossibile non riconoscerne la firma, ma altrettanto difficile è definirne in maniera precisa l’immaginario estetico. Frammenti degli anni ‘60 e ‘70, della moda, della letteratura – come l’influenza di Roald Dahl su Fantastic Mr. Fox e quella di Herman Melville su The Life Aquatic with Steve Zissou – e naturalmente il cinema, con le opere di Truffaut, Orson Welles e Fellini si compattano l’uno con l’altro, dando forma al caleidoscopico sguardo di Anderson sul mondo: qualcosa di profondamente personale che l’ha consacrato come uno dei registi più influenti degli ultimi vent’anni.

A completamento di ogni progetto, Anderson ricorre all’architettura per definire mondi a metà tra l’ordinario e il fantastico, in grado di rispecchiare con precisione l’anima dei propri protagonisti – bambini fuori dal comune o adulti eterni fanciulli – che appaiono come figure altrettanto reali e immaginarie, tristi, vulnerabili ma al contempo piene di vitalità e forza.

Asteroid City. Courtesy of Pop. 87. Credits: Universal Pictures

Tutto questo emerge già nel secondo film Rushmore (1996), in cui l’edificio della Rushmore Academy va a incarnare tutto ciò che il suo protagonista, il giovane Max Fisher ama e conosce non solo di sé, ma anche del mondo. Un rapporto magico e allo stesso tempo incredibilmente drammatico. «Secondo me devi trovare qualcosa che ami fare e poi farlo per il resto della tua vita. Per me è frequentare la Rushmore», recita il protagonista. E noi, seguendolo, vivo e ispirato tra le aule, ce ne convinciamo.

Anderson replica questo approccio lungo tutta la sua produzione, quindi anche nei film degli anni duemila come The Royal Tenenbaums (2001), Moonrise Kingdom (2012), The Grand Budapest Hotel (2014) e The Life Aquatic with Steve Zissou (2004), in cui parallelamente il regista introduce la tecnica della “dollhouse”. L’architettura – sezionata a metà come una casa delle bambole – crea una narrazione visiva multilivello, che svela le peculiarità dei microcosmi di tutti i personaggi.

Once Upon a Time in America. La prospettiva sul ponte di Manhattan, 1936

Con l’obiettivo di portare avanti questo legame tra realtà e sogno e di ricreare architetture fedeli nello stile, alle varie epoche in cui si svolgono le trame dei propri film a partire da Fantastic Mr.Fox, Anderson inizia a ricorrere alle miniature. Veri e propri microcosmi che vengono realizzati, con massima cura del dettaglio da artisti e artigiani. Nell’ultimo film uscito in sala The French Dispatch (2021), Anderson realizza circa 130 set in miniatura, che combina nelle riprese con quelli a grandezza reale.

Asteroid City, la nuova opera di Wes Anderson in arrivo nelle sale italiane a Settembre, fonde ogni aspetto innovativo, sia tecnico, sia concettuale del regista. Per raccontare le vicende di una piccola cittadina che nel 1955 è testimone dell’arrivo degli UFO, Anderson fa un’operazione di metacinema. Asteroid City e i suoi abitanti, infatti, non sono mai esistiti: stiamo assistendo alla realizzazione di una pièce di tre atti scritta da Conrad Earp (Edward Norton) per un «un resoconto autentico sui meccanismi interni di una produzione teatrale moderna».

Asteroid City. Courtesy of Pop. 87 Productions. Credits: Universal Pictures

Dalle riprese in bianco e nero del teatro Tarkington Theater, con pochi spostamenti di camera, ci viene mostrata la scenografia completa: un cafè con 12 sgabelli, una stazione di benzina, un motel, le montagne Tomahawk, un cavalcavia incompleto, un cratere. Ed è proprio in questi luoghi ricchi di connotazioni, che le identità dei personaggi e attori trovano il modo di rivelarsi, dentro i silenzi o i dialoghi brevi e incisivi tipici di Anderson.

È un viaggio che inizia con un treno merci in miniatura, che attraversa il deserto e prosegue oltre Asteroid City, concludendosi sempre al medesimo punto: tra realtà e immaginazione, dove anche i luoghi abitano l’uomo, lo modellano, lo influenzano e, insieme a lui, prendono vita sul grande schermo, in un connubio perfetto tra cinema e architettura.

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