A metà di quest’anno l’aggregatore di recensioni online Metacritic ha pubblicato una raccolta dei primi venti videogiochi per metascore, risultante da una media dei punteggi basati sui giudizi della critica. Inevitabilmente è balzato all’occhio il ruolo prominente che i remake o le remaster hanno assunto nella classifica: tra i primi cinque giochi per metascore, tre sono rifacimenti. Si tratta, in ordine crescente, di Dead Space, Resident Evil 4 e Metroid Prime Remastered, che in realtà i recensori hanno descritto come un prodotto a mezza strada rispetto a un remake. Davvero non ci sono più idee o la questione è più complessa di così?
Prima di arrivare alle ragioni del successo dei videogiochi – in qualche misura – rigiocati, è forse il caso di soffermarsi su una questione lessicale: si definisce remake il rifacimento di un videogioco che mantiene solo i personaggi principali e alcuni elementi chiave della storia. Una remaster, invece, rappresenta un aggiornamento degli aspetti grafici, mentre tutto il resto (storia, personaggi, gameplay) non subisce modificazioni.
Con il senno di poi, possiamo definire remake alcune conversioni di videogiochi negli anni Settanta e Ottanta. All’epoca si trattava soprattutto di rendere un prodotto fruibile su diverse piattaforme. Essendo gli hardware più divergenti, anche quando erano contemporanei o quasi, l’opera andava completamente rifatta, per tagliarla sulle specifiche della console di atterraggio. Da un punto di vista realizzativo, siamo quindi vicini al contemporaneo remake, ma dal punto di vista degli intenti manca sia la chiave nostalgica, sia l’implementazione dell’idea alla base. Un esempio può essere Space Invaders, che esordì sui cabinati nel 1978 e nel 1980 venne trasferito su Atari 2600, trainando il successo della console.
Le cose sono cambiate nel tempo, grazie alla nascita del fenomeno del retrogaming e all’espansione del mercato del sia in senso orizzontale (aumento del numero di videogiocatori), sia verticale (ampliamento del loro range anagrafico). Se si considera il secondo aspetto, si arriva a una delle possibili ragioni dietro il successo di critica di remake o remaster: potrebbe esistere un pregiudizio positivo da parte dei recensori nei confronti dei videogiochi che hanno segnato la loro infanzia.
Un’altra questione potrebbe avere a che fare con alcune formule di gioco moderne che cominciano ad apparire usurate e usuranti: si tratta ad esempio delle contestatissime microtransazioni, acquisti in-game di pochi euro che, nel tempo, potrebbero pareggiare o superare la spesa richiesta all’utente per acquistare la copia di un videogioco nuovo. Non piacciono le loot boxes, come le microtransazioni ma casuali, a sorpresa o “scatola chiusa”, equiparate al gioco d’azzardo in alcuni paesi e per questo bandite. Il gaming moderno è poi associato a open world sconfinati; a volte richiede di essere connessi online per troppo tempo; altre volte presenta meccaniche astruse e poco accessibili a chi si è dedicato ai videogiochi negli anni Novanta o Duemila e adesso ha deciso di riprendere il pad.
Non è un caso che alcuni recenti successi, sia di pubblico, sia di critica, si richiamano a regole di gameplay fino a qualche anno fa considerate datate: l’open world di Elden Ring, gioco dell’anno (GOTY) nel 2022, organizza i suoi punti di interesse come un altro capolavoro, datato 2002. Si tratta di The Elder Scrolls III: Morrowind, che non segnala in anticipo sulla mappa le sfide, i nemici, gli oggetti, etc, ma lascia il videogiocatore libero di esplorare. Vale lo stesso per l’opera da 20 milioni di copie (secondo le ultime stime di maggio) di From Software. Nel frattempo internet è cresciuto, rendendo possibile la creazione istantanea di comunità interessate, che fanno esperienza del gioco collettivamente, scambiandosi informazioni consultabili in tempo reale sul secondo schermo che ognuno di noi ha in tasca.
Vedere i giochi della propria infanzia o adolescenza così in alto nelle classifiche potrebbe alimentare la retorica del “meglio prima”, ma il passatismo sarebbe una risposta troppo facile per chi è cresciuto con i single player su PlayStation e adesso non ci capisce più niente. Al pregiudizio positivo del giornalismo, al quale si è accennato sopra, bisogna aggiungere che sviluppare un videogioco è diventato molto costoso e complicato: riproporre un comprovato successo degli anni Novanta con un remake può essere, dal punto di vista degli investitori, una soluzione a rischio ridotto che tiene dentro tutti e parte da basi solide. Non c’è soltanto un discorso di ordine pratico e monetario.
Uno dei migliori esempi di remake è Resident Evil 2 del 2019, il secondo successo della saga, amato dai millennial cresciuti con PSOne e scoperto dagli zoomer grazie a una nuova veste con nessuna barriera di accesso per chi è abituato ai sistemi moderni. RE:2 è una rivisitazione esemplare, conserva il portato di vecchie idee sempre efficaci ma le aggiorna, rimette sulla mappa il survival horror in terza persona (tecnicamente superato nella generazione di PS2) senza snaturarlo in un action horror, la qual cosa era stata la causa della sua momentanea sparizione. Il risultato è spaventosissimo ma anche intermedio rispetto ai vari tipi di utenti, un prodotto finale che è maggiore della somma delle singole parti.
I remake, che sono solo un trend di mercato tra gli altri, non sono la dimostrazione del “meglio prima” perché non sono quello che c’era prima, invece sono il videogioco che riflette su se stesso e cammina in avanti guardando più attentamente e dichiaratamente al passato, dimostrando, in un certo senso, che il medium è maturo per fare il giro, per rivisitare i miti della fondazione e un patrimonio storico che finalmente possiede in misura consistente e nonostante l’aggiornamento tecnologico.