C’è un generale accordo sulla necessità di preservare i film, ma la stessa forma di salvaguardia sarebbe necessaria anche nei confronti dei videogiochi. Spesso si cita la stima secondo la quale l’industria del gaming vale più di quella della musica e del cinema messe insieme. Non sempre si riflette sulle conseguenze di una simile portata in termini di immaginario. Eppure, una fetta sempre più grossa dei nostri riferimenti culturali viene dal mondo delle opere multimediali interattive. Si potrebbero citare i cosplayer, i reel su TikTok, le serie TV su licenza, l’ascesa legata ai video di gameplay delle star di YouTube e Twitch, i nomi di grossi franchise videoludici che si affacciano nei trend di Google nel giorno dell’uscita, il titolo del secondo film di animazione più di successo di sempre, “Super Mario Bros. – Il film”. Si potrebbero fare altri esempi, ma forse sarebbe superfluo, perché la centralità dei videogiochi è più o meno interiorizzata in una grossa fetta della società, al netto di qualche sortita che fa rumore proprio perché appare scollegata e in controtendenza.
Molti dei videogiochi più attenzionati sono anche transgenerazionali, cioè sono stati capaci di rinnovare il proprio pubblico impilando un successo dopo l’altro. L’accoglienza entusiasta riservata a “Final Fantasy 16” su PS5 ha le radici negli anni Ottanta. Lo stesso vale per la serie di “The Legend of Zelda”, che dopo la pausa più lunga di sempre è tornata su Nintendo Switch con il nuovo capitolo “Tears of the Kingdom”. Tra i venti giochi migliori del 2023 (fino ad ora) secondo Metacritic ci sono le ultime iterazioni delle serie storiche di “Age of Wonders”, “Diablo” e “Street Fighter” e tre remake o remastered, cioè “Dead Space”, “Resident Evil 4 Remake” e “Metroid Prime Remastered”. La lista fa implicito riferimento a quello che è venuto prima, alla storia del medium, e rilancia il tema della preservazione. È una questione generale, che non va confusa con un aspetto personale. Rimettere mano ai giochi della propria infanzia o adolescenza, tentare di riconnettersi le emozioni che si sono liberate dalle prime esperienze con un pad in mano è la pratica comunemente nota tra gli appassionati con il termine di “retrogaming”.
Chi vuole fare retrogaming si trova di fronte a meccanismi di distribuzione molto cambiati, a un’accessibilità per alcuni versi maggiore e, allo stesso tempo, a un grado di complessità dell’offerta che va affrontato in maniera informata. Su Ebay, a maggio, una cartuccia sigillata di “Super Mario 64” è stata venduta a cinquemiladuecentonovantasei euro. Il mese successivo un utente ha pagato tremila e dieci euro per un Clock Tower da PS1 mai aperto. Una copia di Pokémon Cristallo per Game Boy Color è stata battuta sul sito di aste virtuale per cinquemilasettecento e dieci euro il 18 aprile 2023. Le edizioni fisiche dei giochi del passato sono diventate rare, da collezione, vanno bene per i musei. Non sempre raggiungono le cifre summenzionate, ma l’alternativa per risparmiare rimane l’abbonamento ad alcuni servizi online. Limitando il discorso alle console, sia Microsoft, sia Sony, sia Nintendo hanno offerto ai videogiocatori la possibilità di fare un salto nel passato. Con un abbonamento al Game Pass, supportato da Xbox One, Xbox Series X|S, PC e cloud, è possibile giocare, con alcune differenze a seconda del supporto, a “Doom 64”, “GoldenEye 007”, “Perfect Dark”, “Psychonauts” e “The Elder Scrolls III: Morrowind”, tra gli altri. Il “Game Pass” è un catalogo di videogiochi online per accedere al quale è necessario pagare un abbonamento.
L’equivalente di Sony è il PlayStation Plus, disponibile per PS4, PS5 e PC in cloud. Contiene una raccolta di classici, pescati dalle precedenti generazioni di PlayStation. Al momento, chi si abbona può installare nella propria console “Ape Escape” 1 e 2, “Dark Cloud”, “Doom”, “God of War HD” I e II, “Oddworld: Abe’s Oddysee” ed “Exoddus”, il “Resident Evil” del 1996 in versione director’s cut, i primi tre “Devil May Cry” in alta definizione, “METAL SLUG” 3, “Super Street Fighter II Turbo HD” Remix, “Syphon Filter”, “Tekken” 2, etc. Anche Nintendo si è mossa nella stessa direzione (cioè a ritroso nel tempo): tramite Nintendo Switch Online è possibile accedere, sull’omonima console, alle vecchie glorie uscite su NES, Super NES, Nintendo 64, Game Boy, Game Boy Advance e SEGA Mega Drive. In questo modo, non risulta indispensabile sborsare grosse cifre per ritornare nel castello dello storico platform in 3D della serie di Mario, o per fare un salto nei “livelli” (sarebbe meglio definirli dungeons) di “The Legend of Zelda: Ocarina of Time”, o ancora per imbracciare l’ascia bipenne in “Golden Axe” II. L’accessibilità dei servizi online prescinde dal dover possedere un hardware dedicato (come un Game Boy Advance) e un software su copia fisica (come la cartuccia di “Mario Kart: Super Circuit”) per poter fare del retrogaming. Questo è indubbiamente un bene per il videogiocatore, ma da qui in poi iniziano le complicazioni.
Per accedere a un catalogo completo dei classici è necessario pagare un extra: si tratta del “pacchetto aggiuntivo” di Nintendo Switch Online e della sottoscrizione cosiddetta “premium” del PlayStation Plus. I servizi prevedono, rispettivamente, due e tre fasce di abbonamento. In entrambi i casi, è la più costosa a consentire all’utente di disporre al massimo dell’offerta per il retrogaming. Un altro aspetto è la rotazione dei giochi: i cataloghi di Game Pass e PlayStation Plus vengono aggiornati periodicamente con nuove entrate e fuoriuscite. Di solito le fuoriuscite non riguardano giochi molto vecchi, che al contrario aumentano. Il discorso cambia per i titoli con dieci o quindici anni sulle spalle: dal 18 luglio 2023, i possessori di PlayStation Plus premium non potranno più installare la versione rimasterizzata di “BioShock”, capolavoro del 2007, e a una collection che include “Borderlands” 2, pubblicato nel 2012.
Sussiste poi la solita questione dell’esclusività: lo sparatutto in prima persona “GoldenEye 007”, che ha influenzato la storia del genere, è disponibile su Nintendo Switch Online e Game Pass, manca su PlayStation Plus. Quest’ultimo è l’unico servizio a potersi consolare con uno dei giochi di ruolo più belli e poco conosciuti per PS1, “The Legend of Dragoon”, la cui copia fisica ha raggiunto il valore di 450 euro su Ebay. “The Elder Scrolls III: Morrowind”, forse più apprezzato dei sequel “Oblivion” e “Skyrim”, era un’esclusiva console Xbox: lo è rimasto anche nell’era dei servizi online per il retrogaming. Nintendo naturalmente si tiene stretta i classicissimi legati alle licenze e alle formule di gioco partorite in casa: le serie di “Mario Kart”, “Golf e Party”; “Yoshi”; “Pokémon”; “Kirby”; “F-Zero”. C’è chi potrebbe restare deluso da alcuni grossi buchi nei cataloghi: una delle esclusive più amate dai possessori della prima PlayStation era “Gran Turismo” del 1997, su PS Plus premium non c’è. Sul fronte di Nintendo, è impossibile recuperare “Super Smash Bros”. o Donkey Kong 64. Al momento non c’è modo di rimettere mano ai leggendari survival horror “Silent Hill” 1 e 2. Se si pensa alla prossima uscita dell’attesissimo remake di “Silent Hill” v2, si potrebbe notare come, alla base di alcune scelte, ci sia l’interesse delle multinazionali che operano nel segmento del gaming a concentrare l’attenzione sulle ultime uscite. Da una parte è normale per operatori economici interessati trattare i videogiochi come merce, un altro punto di vista sarebbe considerarli prodotti culturali. E si torna così alla prima questione accennata sopra, quella generale: l’interesse alla preservazione.
Per Andrea Dresseno, che nel 2009 ha dato vita all’Archivio Videoludico, spazio dedicato alla conservazione e allo studio del videogioco, «dal punto di vista archivistico, la preservazione è sempre legata all’accessibilità. Si preserva – continua Dresseno – e si salva qualcosa per far sì che l’oggetto possa essere fruito, per far sì che possa continuare a veicolare contenuti, a rimanere vivo e a essere fonte».
E ancora: «Un videogioco preservato e reso accessibile è potenziale risorsa per la ricerca, è un’esperienza che si mantiene viva e che può risultare fruttuosa, sia per puro divertimento che per studio. Un videogioco preservato e reso accessibile è un modo per fare storia e memoria, per aggirare il naturale oblio imposto dallo scorrere del tempo».
Dresseno, che considera più intricata la questione della separazione tra videogioco come merce e prodotto culturale, ha anche accennato alle sfide della preservazione: «In ambito pubblico – dice – manca probabilmente una sensibilità diffusa sul fronte della conservazione del videogioco», e inoltre «manca una rete di archivi sparsi sul territorio, che consentano un accesso capillare al medium; mancano centri di ricerca dedicati, che permettano non solo di accedere ai giochi ma anche a tutti quei “paratesti” necessari per l’approfondimento», come libri, riviste, etc.
«C’è poi tutta la questione legata all’obsolescenza dei supporti fisici, alla molteplicità delle piattaforme di gioco (non sempre facilmente e immediatamente recuperabili) e alle insidie del digitale, che non garantisce un’adeguata preservazione». C’è infatti la questione dei diritti, mentre la chiusura di store online di Wii U e 3DS, due console Nintendo, ha provocato la risposta indignata, tra le altre, della Video Game History Foundation.
«Preservare videogiochi – conclude Dresseno – è un lavoro già di per sé complesso a causa delle specificità del medium, l’assenza di un contesto culturale e sociale preparato e consapevole rischia di non facilitare le cose».