Squilibrio del terrore Il ritorno dell’incubo nucleare (strumentale a Putin)

Guai a smarrire la memoria dell’agosto 1945, quando con le bombe su Hiroshima e Nagasaki il mondo è entrato in una nuova fase. L’aggressione russa dell’Ucraina ha azzerato la strategia della distensione che aveva caratterizzato interi decenni

I leader del G7 di fronte a uno dei simboli di Hiroshima durante il summit G7 di maggio
I leader del G7 di fronte a uno dei simboli di Hiroshima durante il summit G7 di maggio (Brendan Smialowski/AP)

Il mattino del 6 agosto 1945, alle ore 8:15 un aereo dell’Usaf sganciò sulla città di Hiroshima in Giappone un ordigno atomico. Tre giorni dopo il bombardamento nucleare fu ripetuto su Nagasaki. Il numero delle vittime a Hiroshima fu stimato tra centomila e duecentomila civili; tra sessantamila e novantamila a Nagasaki.

La novità sconvolgente fu determinata dagli effetti delle radiazioni atomiche, nell’immediato e negli anni a venire. Sul piano del numero delle vittime civili il bombardamento «tradizionale» di Dresda dal 13 al 15 febbraio di quello stesso anno (migliaia di cittadini furono raggiunti da specifici ordigni persino nei rifugi) da parte degli Alleati provocò danni più gravi, tanto che furono stimati più di duecentocinquantamila morti.

In quelle giornate di agosto del 1945 il mondo entrò in una nuova fase della storia dell’umanità: quella della scoperta e dell’impiego di armi che avrebbero potuto annientarla.

Nonostante che da quella data sia iniziata la ricorsa al nucleare da parte delle due superpotenze che dopo la Seconda guerra mondiale si spartirono l’egemonia sull’intero pianeta, il bombardamento delle due città giapponesi è stato il primo e unico utilizzo in guerra di tali armi, sebbene il loro sviluppo abbia registrato una pericolosa impennata negli anni successivi.

L’incubo della guerra nucleare ha oppresso l’umanità per decenni, anche a seguito dell’ingresso di altri Paesi nel club atomico. Anzi sul piano geopolitico potremmo di dire che il mondo – anche se non se ne rende conto – è molto meno sicuro adesso in una situazione di policentrismo nucleare che durante il cosiddetto «equilibrio del terrore» tra i due imperi sub-mondiali.

La politica di distensione ha comportato anche accordi di disarmo bilaterale e controllato, nonché un impegno, non sempre coronato da successo, a contenere il numero di Stati che avessero a disposizione la tecnologia per l’accesso al nucleare (in questo ambito, col Memorandum di Budapest del 1994, l’Ucraina rinunciò, in cambio di una garanzia di sicurezza e di integrità territoriale) a ben millenovecento testate nucleari ereditate dal crollo dell’Urss.

L’incubo del conflitto nucleare è tornato ad angosciare il mondo dopo l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia. Della minaccia nucleare (magari a uso tattico) si avvale strumentalmente Vladimir Putin e il mondo occidentale lo prende in parola per non doversi impegnare troppo nella difesa della resistenza ucraina.

Tornando a Hiroshima e a Nagasaki, a tanti anni di distanza è giusto ammettere che sono i vincitori delle guerre a scrivere la storia, perché non c’è dubbio che quei bombardamenti potrebbero essere configurati come crimini di guerra.

Si disse allora – fu questa la versione ufficiale – che l’attacco nucleare, che determinò la resa senza condizione del Giappone (la guerra in Europa era finita a maggio) servisse a concludere le ostilità senza che gli Alleati fossero costretti a sbarcare sul territorio nipponico per conquistarlo metro per metro, come era avvenuto in Germania, a costo di centinaia di migliaia di morti.

Altre ricostruzioni – anche negli Usa – sostengono che il Giappone non sarebbe stato in grado di resistere e che si sarebbe arreso comunque. Il bombardamento atomico sarebbe stato deciso per verificare i risultati delle ricerche sulla scissione dell’atomo in cui gli scienziati americani avevano preceduto quelli tedeschi. Non a caso le prove si erano svolte, poco tempo prima della missione sui cieli del Giappone, nel deserto del Nuovo Messico.

Infine, è plausibile che gli Usa intendessero far capire agli alleati – ovvero all’Urss – chi avrebbe comandato a guerra finita. Franklin Delano Roosevelt era morto il 12 aprile di quello stesso anno e lo sostituì Harry S. Truman che era il vicepresidente nel ticket del quarto mandato. Le elezioni erano avvenute 82 giorni prima.

Truman era stato tenuto all’oscuro del progetto Manhattan. Ma prese la decisione in totale autonomia come era nel suo carattere e nel suo stile. Soleva dire di sé che «il tavolo del presidente è il punto dove finisce lo scarico del barile». Truman fu il presidente che volle il Piano Marshall attribuendone il merito al suo Segretario di Stato che era in quel momento l’uomo più popolare negli Usa e che quindi godeva di maggior credito verso l’opinione pubblica.

Anni dopo, non esitò a licenziare dalla sera al mattino il generale Douglas Mac Arthur, l’eroe della Guerra nel Pacifico, per dissensi sulla conduzione della guerra in Corea. Hiroshima e Nagasaki rappresentano una tappa cruciale nel Calvario dell’umanità. Guai a smarrirne la memoria.

Soprattutto in presenza della più grave crisi internazionale dal dopoguerra ad oggi come viene ritenuta la tragedia dell’Ucraina. Anche perché questa vicenda non ha solo un carattere locale, ma ha praticamente azzerato quella strategia della distensione che aveva caratterizzato una intera fase storica a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. E riportato – bene che vada – il mondo sulla soglia di una nuova guerra (speriamo solo) fredda.

Ma come ha scritto Vittorio Emanuele Parsi nel suo mirabile saggio “Il posto della guerra e il costo della libertà”: «Ripensare la guerra, e il suo posto nella cultura politica europea contemporanea, dopo l’Ucraina è il solo modo per non trovarsi di nuovo davanti a un disegno spezzato senza nessuna strategia per poterlo ricostruire su basi più solide e più universali. Perché se c’è una cosa che la fiera resistenza del popolo ucraino ci ha insegnato è che non bisogna arrendersi mai, che la difesa della propria libertà ha un costo ma è il presupposto per perseguire ogni sogno, ogni speranza, ogni scopo, che le cose per cui vale la pena vivere sono le stesse per cui vale la pena morire».

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