Hate speechLa discriminazione invisibile del linguaggio non inclusivo

Nell’introduzione al suo libro “Parole che separano” (Raffaello Cortina), la giurista Marilisa D’Amico affronta con la lente della costituzionalista il ruolo che possono avere le parole nella definizione della realtà in cui viviamo

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Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra a uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”

Così Eugenio Montale, in una delle più belle liriche del Novecento, pubblicata nel 1925 nella famosa raccolta Ossi di seppia, raffigurava in modo magistrale la centralità della parola e il suo significato simbolico, non solo per il poeta e per il suo ruolo nel mondo e in quel momento storico, ma per l’umanità intera.

Fin dall’antichità, la connessione fra parola e anima umana, fra parola e costruzione della realtà e del mondo, è apparsa chiara, come chiaro è il significato del “silenzio” in cui a lungo sono state relegate le donne. Nella società attuale i problemi non sono tanto diversi, ma ne è aumentata la complessità, gli strumenti del linguaggio sono diventati altri, e alcuni di essi, come quelli legati alle nuove tecnologie e all’intelligenza artificiale, risultano molto più potenti e pervasivi. Diviene così sempre più evidente il rapporto fra parola, linguaggio e realtà da una parte e gli effetti discriminatori legati all’uso delle parole dall’altra. Con la parola, infatti, si può costruire, ma anche manipolare; con la parola si può distruggere o si può creare.

Possiamo sostenere oggi, a livello individuale e collettivo, che le parole non feriscono, non costruiscono, non agiscono? Sarebbe molto difficile, e non soltanto per chi studia da decenni il potere performante della lingua e del linguaggio – e da ultimo del linguaggio online –, ma anche per tutti coloro che vivono in una realtà dove le parole e i pensieri corrono velocissimi, e dove è sempre più evidente una recrudescenza della violenza e della discriminazione. Come dimostrato dalla Commissione di studio “Jo Cox” sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nella piramide dell’odio vi è un legame diretto fra la violenza verbale e quella fisica, fino ad arrivare agli omicidi.

Allo stesso modo, è ormai acclarato che l’utilizzo di un linguaggio “al maschile” non soltanto discrimina le donne, ma oscura anche le loro conquiste nella società. E tuttavia è paradossale che siano le stesse donne che giungono in posizioni apicali a non rendersi conto del problema e a rifiutare i titoli al femminile. È emblematico quanto accaduto in occasione dell’insediamento al Governo della prima presidente del Consiglio dei ministri italiana, Giorgia Meloni, la quale ha dichiarato immediatamente di essere il presidente del Consiglio. Non solo, ma il giorno del suo insediamento è apparsa una circolare che conteneva – paradigmaticamente – la seguente indicazione: “L’appellativo da utilizzare per il presidente del Consiglio dei ministri è: ‘Il signor presidente del Consiglio dei ministri, on. Giorgia Meloni’”. Alla luce delle polemiche immediatamente insorte, la stessa Meloni ha ritenuto di risolvere il problema dicendo di non essere interessata alla questione, chiudendo il dibattito con un laconico: “Chiamatemi come vi pare”. E oggi, infatti, negli stessi ministeri, le ministre decidono di farsi appellare al maschile o al femminile, ignorando peraltro la storia dell’amministrazione italiana che, già negli anni Novanta, riconoscendo l’esistenza di un linguaggio burocratico “tutto al maschile”, con il Codice di stile promosso da Sabino Cassese aveva fornito raccomandazioni per incoraggiare l’uso di “espressioni alternative, più egualitarie, [in grado di] incontrare il consenso della comunità dei parlanti e rispecchiare tanto i cambiamenti già radicati nella realtà sociale quanto quelli in fieri”.

Ma in che modo la lingua e il linguaggio si legano strettamente al significato e alle trasformazioni di una democrazia costituzionale come la nostra? In parole più semplici, esiste un problema costituzionale legato al linguaggio o, piuttosto, una democrazia fondata sulla libertà di pensiero dovrebbe garantire un confronto libero in ogni caso, sapendo che ci si difende dalle parole soltanto con altre parole?

In questo contesto è necessario considerare i rischi di una limitazione di parole o di pensiero, rischi che sono evidenti se guardiamo per esempio a episodi recenti avvenuti nel mondo accademico. Non solo nelle università americane alcuni professori sono stati espulsi perché si rifiutavano di utilizzare lo schwa; recente è la notizia di quanto avvenuto a Science Po a Parigi, dove una professoressa ha denunciato di essere stata licenziata a causa dell’utilizzo nei suoi corsi dei termini “uomini” e “donne”, accusata per questo dalla comunità lgbtqia+ di aver fatto “affermazioni sessiste, degradanti, discriminatorie, razziste”.

Mentre ci preoccupa questo eccesso punitivo nei confronti di un linguaggio “inclusivo”, che ancora non è di uso comune e dovrebbe essere assimilato senza imposizioni, diversa è la situazione rispetto al linguaggio d’odio, anche online: è stato considerato molto positivamente, da parte della stampa nazionale, il fatto che la senatrice Liliana Segre abbia presentato denuncia nei confronti di ventiquattro “haters da tastiera” per le ripetute minacce e i pesanti insulti ricevuti sul web.

Il filo rosso di questo volume sta proprio nella domanda – destinata a rimanere aperta – su quale sia il posto della lingua e della parola nello spazio costituzionale, e sulla valutazione delle discriminazioni possibili attraverso il linguaggio o il pensiero, così come su quali siano gli strumenti utilizzabili per difendersi da pensieri “cattivi”, da linguaggi che odiano e che costituiscono quella che in modo molto efficace è stata definita una “mente ostile” (Santerini, 2021a).

E se è vero che oggi siamo in tante e tanti consapevoli della necessità di intervenire su parole e pensieri “odianti” o discriminatori, sono convinta che l’orizzonte ideale rimanga quello del giudice Oliver Wendell Holmes, il quale nel 1919 affermava che “il libero commercio delle idee” fosse il bene più prezioso e irrinunciabile, in base al quale la verità avrebbe vinto per la sua stessa forza.

Parole che separano

Tratto da “Parole che separano” (Raffaello Cortina Editore), di Marilisa D’Amico, pp. 196, 18€

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