Tessuto umanoPasseggiando a Kyjiv scopro le nuove distanze (fisiche ed emotive) tra noi ucraini

La capitale è cambiata eppure finora ha sempre trovato lo spazio per accogliere tutti e farli sentire come se fossero a casa loro. Ma si nota la differenza tra chi è stato al fronte e chi ha sempre vissuto nelle retrovie. Tra quelli che hanno perso qualcuno caro e quelli che per ora sono stati risparmiati

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Camminando per le strade di Kyjiv, larghe, lunghe e collinose – Kyjiv è costruita sulle salite e discese, ne parlo nella guida letteraria “Dimensione Kyjiv” che ho curato per la BUR-Rizzoli – penso alla distanza, quella fisica e quella metaforica. Kyjiv è una città enorme, a volte per spostarsi da una parte all’altra ci metti anche due ore. A Kyjiv viaggi in una metropolitana che per attraversare il fiume Dnipro sbuca dal tunnel e poi viaggia sul ponte e ti sposta dalla riva destra alla riva sinistra e viceversa, cammini nella città bassa e per salire su quella alta devi prendere una funicolare, e per arrivare a destinazione puoi prendere il mini autobus che si chiama marshrutke, o il filobus o il tram. 

Le distanze di Kyjiv sono così grandi da poter leggere un libro, da ascoltare un podcast o un album nuovo dell’artista preferito, da poter passare tanto tempo a studiare le facce dei compagni di viaggio casuali. 

Il tessuto umano di Kyjiv è cambiato. Tanta gente è andata via, tanta gente è arrivata dall’Est dell’Ucraina dove la situazione è più pericolosa. A Kyjiv invece c’è l’antiaerea migliore e la capitale è la città più sicura dell’Ucraina.

Ci sono i nuovi kyjiviani che con le loro storie di trasferimento accorciano le distanze tra l’Ucraina orientale e l’Ucraina centrale. I kyjiviani storici fanno fila ai confini del paese per accorciare le distanze tra la loro casa a Kyjiv e la loro nuova casa all’estero. Non sono più padroni della loro città, sono diventati turisti. Chissà se presto arriverà un nuovo termine per descrivere lo sfollato che qualche volta l’anno torna nel posto che una volta era la sua casa. 

Sono una di quelli che una volta tornata in città gira con il telefono in mano perché non si ricorda i nomi delle vie e nota tutte queste nuove distanze. La distanza tra me, forestiera, e i miei amici che vivono la vita in Ucraina, cerco di accorciarla, cerco di avvicinarmi, cerco di fare domande a volte inopportune per sentirmi più partecipe, eppure non potrò mai vivere quello che vive un ucraino in Ucraina. 

Anche la distanza nella lingua si accorcia, mi avvicino alla mia madrelingua ucraina, la uso tutti i giorni, accantonando l’italiano e allungando la distanza tra l’italiano e me. Ma l’italiano mi manca tanto, l’italiano vive in me con la mia gesticolazione all’italiana, con la mie cadenze e con il ritmo della frase. Parlo in ucraino tutti i giorni e invece scrivo in italiano per non allungare la distanza con il posto dove a breve tornerò.

Ci sono altre distanze che si notano, quella tra chi è stato al fronte e chi ha sempre vissuto nelle retrovie. Tra quelli che hanno perso qualcuno caro e quelli che per ora sono stati risparmiati, tra quelli che hanno qualcuno che serve nell’esercito e quelli che no. Le distanze tra quelli che hanno ancora una casa e quelli che non ce l’hanno più. 

Kyjiv è cambiata eppure finora ha sempre trovato lo spazio per accogliere tutti e per far sentire tutti come se fossero a casa loro. Lo psicologo Stanchyshyn, autore del libro “Le altalene delle emozioni in guerra”,  dice che tutto quello che ci succede è normale, l’unica cosa non normale è la guerra. 

Salendo una salita a scale verso la via Yaroslavl Val, dove si trova l’ambasciata italiana, penso che tutte queste distanze non si sarebbero mai formate se la Russia non avesse invaso l’Ucraina già nel 2014. Tutto sarebbe rimasto al suo posto, tutti sarebbero rimasti ancora vivi.

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