Shadow banL’autocensura di TikTok e l’identità social determinata da un’autocrazia

Grazie a un algoritmo spietato nel premiare o danneggiare i creatori di contenuti, la piattaforma cinese non ha bisogno di dire agli utenti quali argomenti sono proibiti. Sappiamo tutti che parlare di conflitti, dittature, genocidi, casi di cronaca, o di Adolf Hitler provoca un contraccolpo nelle visualizzazioni. E per un pugno di like ci adeguiamo

Unsplash

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

In Cina TikTok non esiste. O, meglio, la società madre ByteDance in patria offre una sorella della app che ha irretito oltre un miliardo di utenti nel mondo, di cui centocinquanta milioni negli Stati Uniti e altrettanti in Europa. “Parent company” e “sister app”: il lessico famigliare della tecnofinanza produce incesti. La gemella si chiama Douyin e anche lei è una piattaforma di video a getto continuo che gemmano da un algoritmo ingegnerizzato per assecondare i nostri gusti e, in ultima istanza, condizionarli.

È nata nel 2016, due anni prima dell’acquisto di musical.ly, a cui si devono i “balletti” ancora attribuiti nelle semplificazioni mediatiche a TikTok. Era famosa per il “lip sync”, una specie di playback facilitato da un sistema che mette a tempo chi si filma con la musica. Dopo la migrazione, l’audio è rimasto centrale: non solo le canzoni, anche se la viralità nelle coreografie vale un disco di platino. Discorsi di politici, spezzoni di film, meme che poi travasano in differita sui social dell’americana Meta, come Instagram.

La principale differenza tra Douyin e la sua copia per il mercato occidentale è che in Cina i filtri sono preinstallati. Lisciano la pelle, ridisegnano il volto e ingigantiscono gli occhi. Potremmo sorridere dell’effetto cartoon, e il rapporto di causalità è più complesso di così, ma gli interventi di chirurgia estetica sono raddoppiati rispetto al 2014. L’algoritmo di TikTok, a cui ci siamo assuefatti perché ci delude raramente mentre scorriamo il suo feed fluviale e virtualmente infinito, è stato modellato qui.

Operare nella Repubblica popolare significa rispettarne i dettami censori. Digitando “Tiananmen 1989”, ha verificato la Cnn, non si trova nulla. Error 404. Con la stessa ricerca, su TikTok appaiono i video del massacro, descritto in questi termini, e anche la spacconeria (forse interessata) di qualcuno che posta immagini d’epoca per testare se la piattaforma «è sotto il controllo del Partito comunista cinese come pensa il Congresso».

Le commissioni di Washington hanno “arrostito” (l’inglese “roast” dà meglio l’idea) spesso Mark Zuckerberg del tardo impero di Facebook. Davanti a questo tribunale un po’ incanutito, si è seduto anche il ceo di TikTok, Shou Zi Chew. Ha assicurato che i dati degli utenti sono al sicuro. Era ancora presidente Donald Trump quando il gigante è stato costretto a trasferire su suolo – cioè su server – yankee le informazioni sui cittadini americani: nomi, età, numeri di telefono, indirizzi e-mail, foto.

L’hanno battezzato “Project Texas”, ma non c’entra la bomba atomica, almeno per ora. Nonostante ciò, una legge di Pechino consente al regime di obbligare le aziende a consegnare i dati personali rilevanti per la “sicurezza nazionale”. È questa la preoccupazione “tecnica” alla base delle minacce transatlantiche di un bando alla app, già vietata sui dispositivi aziendali di militari e di chi lavora per il governo o la Commissione europea. Ma chi è che va sui social dal cellulare aziendale?

Ci sono altri timori, però, e sono quelli più inquietanti. Hanno una natura, per così dire, culturale. Douyin ha un sistema di tutele: sotto i quattordici anni c’è solo una versione edulcorata, con contenuti protetti e per bambini, che si disattiva dopo quaranta minuti di utilizzo e non è accessibile tra le dieci di sera e le sei del mattino. Misure simili, quando proposte dalla classe politica nostrana, fanno gridare alla stretta liberticida, se non all’isteria da lollardi.

Dobbiamo essere liberi, invece, di anestetizzarci il cervello. Libera è, sulla carta, anche la piattaforma. Si può tranquillamente criticare Xi Jinping, per esempio; o apostrofare Vladimir Putin per quello che è, un sanguinario criminale di guerra. È l’autocensura che abbiamo introiettato. Così suscettibili agli asterischi e allo schwa che maltrattano l’ortografia, li vediamo prosperare in didascalie, scritte a schermo e sottotitoli. Vengono ammorbidite tutte le parole che, sospetta la community, potrebbero “triggerare” (orrido neologismo) gli algoritmi.

Parlare di conflitti, genocidi, casi di cronaca, o di Adolf Hitler – dicono le voci del corridoio digitale – costerebbe un contraccolpo di views o, peggio, il famigerato «shadow ban». È uno strumento più raffinato della rimozione tout court di un contenuto: formalmente lo si lascia online, disinnescando il vittimismo degli autori, ma lo si esclude dal traino organico. Tradotto: si fa in modo che non lo veda nessuno. E allora giù di perifrasi, asterischi e numeri al posto delle lettere.

È un occultamento improbabile. Non ha dignità da neolingua, somiglia piuttosto a un parlare in codice da scuola materna, eppure dà ai suoi demiurghi un certo alone carbonaro, incomprensibile fuori dalla bolla. Forse non era questo il “warfare cognitivo” teorizzato dall’esercito cinese, di cui TikTok può essere un ingranaggio. Perché, alla fine, i social network sono la Macchina del caos raccontata da Max Fisher nel libro con questo titolo appena pubblicato da Linkiesta Books, un poderoso aggregatore di identità.

Condizionano il nostro modo di ragionare. Pensate allo “spillolamento”. Su TikTok macinano migliaia di interazioni delle clip fuori contesto di interviste di cui i diretti intervistati si lamentano, contrappasso di una fama elargita da altre app. Ma ormai i creator concepiscono la loro opera omnia perché possa essere isolata in tante «pillole» da disseminare online. La app ha sfondato il muro dei sessanta secondi, si possono caricare video lunghi fino a dieci minuti, in aperta concorrenza a YouTube e, perché no, a Netflix e agli altri monoliti dello streaming.

Mentre Twitter targato Elon Musk diventa il sottoscala dei picchiatelli trumpiani, no-vax e cospirazionisti, e il gigantismo zavorra Meta e le altre corazzate al silicio, ci siamo allarmati per la disinformazione russa, un Gruppo Wagner distaccato sul web. Non è l’unica. Il punto è che cosa succede se “chi ci crediamo di essere” ce lo dice un autocrate. Ma la domanda resta elusa, è troppo alta sul mercato.

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club