Tentazioni e luoghi comuniCome il cinema ha raccontato l’alienazione delle coppie borghesi

Da Antonioni a Godard, passando per Rossellini e Bergman: tutti i cineasti più celebri si sono concentrati sul racconto delle dinamiche relazionali, evidenziando le contraddizioni e il panorama asfittico che caratterizzava la borghesia dell’epoca. Un’eredità che ha raccolto la televisione all’interno dei suoi programmi di intrattenimento

I film del secondo dopoguerra hanno una cosa in comune: tentano di descrivere l’iconografia della coppia borghese. Da Fellini ad Antonioni, da Rossellini a Godard, da Bergman a Buñuel, tutti sono inciampati in una ricorrenza narrativa che sfiora, anzi, lambisce lo stereotipo. L’interesse era così morboso perché, di fatto, era poco conosciuta. Con l’avvento dell’epoca industriale e l’estensione dei centri urbani, le famiglie originarie, agricole e allargate si erano sfilacciate. Le città si compongono progressivamente di palazzi, divisi a loro volta in appartamenti. La consanguineità si riduce al nucleo composto di due sole persone, di cui una, l’uomo, investe su se stesso, si parcellizza in un mestiere, in una professione metropolitana. E la donna non è altro che la sua compagna.

«È la prima volta che stiamo soli tanto tempo da quando siamo sposati», dice Ingrid Bergman al marito durante il viaggio in automobile che li sta conducendo a Napoli in Viaggio in Italia. Nonostante siano sposati da otto anni, l’intimità tra loro è compassata, venata di risentimento. «Mi sono accorta che siamo due estranei», «Dopo otto anni di matrimonio, ignoriamo tutto l’uno dell’altra». Ne La notte di Michelangelo Antonioni, Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau interpretano una coppia di coniugi, di cui il primo è un affermato scrittore, lei lo sostiene, lo attende. Si aggira, sola e turbata, per le strade della città.

Qualcosa sembra sempre in procinto di affiorare, tra i due. Un’ombra vela lo sguardo di Lidia, eppure niente accade, niente rompe davvero il loro equilibrio. Sentiamo, in sottofondo, come il silenzio straniante di una cristalleria dove gli oggetti sono in procinto di frantumarsi. Quando infine capitano a una grande festa fuori Milano, dentro a una villa di facoltosi industriali della pianura brianzola, si ritrovano avviluppati in una spirale progressiva di incontri, conversazioni, balli, tuffi in piscina e la tensione raggiunge il suo apice, implode. All’alba, stremata, gli confessa: «Non ti amo più. Neanche tu mi ami più. Dillo!». Non hanno mai smesso, per l’intero corso della notte, di spiarsi a vicenda. Un principio di incomunicabilità li tiene prigionieri. Il disprezzo di Jean-Luc Godard, tratto dall’omonimo testo di Moravia, vede addirittura una maestosa, confusa Brigitte Bardot arrivare a tradire il marito e poi a morire, pur di evitare di pronunciare l’episodio che l’ha offesa: il sospetto, anzi, il presentimento che lui abbia cercato di usarla, di servirsi di lei allo scopo di fare carriera.

Questo tipo di relazione poggia su promesse implicite, su accordi segreti: la monogamia, ad esempio. Oppure il sesso. I figli non hanno idea di ciò che accade tra i genitori, verbalizzare, parlarne, lasciare aperta la porta equivale a violare un tabù. Tutto è ammantato da una coltre di mistero, di perbenismo, di formalità. Nell’incipit di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, marito e moglie sono seduti sul divano del loro soggiorno, mentre si prestano all’intervista da parte di un periodico. La macchina da presa indugia sui volti in primo piano. Il giornalista li incalza, «Sorridete!», e li esorta a descriversi in poche parole. Dopo un istante di esitazione, il marito dichiara: «Beh, mi reputo abbastanza intelligente, molto giovane, valido negli affari e sessualmente. Un uomo di larghe vedute, colto, brillante e anche educato. Che altro potrei aggiungere? Che sono socievole, anche con chi è di condizione inferiore alla mia. E sportivo. E soprattutto un buon padre di famiglia…». Quando arriva il suo turno, la moglie si ritrae, imbarazzata, sospira: «Io sono sposata a Johan e ho due figlie… Non mi viene in mente nient’altro».

In questo caso, entrambi hanno raggiunto posizioni di successo: lui è un docente universitario, lei lavora in uno studio legale. Eppure, nonostante la presunta assenza di disparità economica, basta un vento contrario, un’incrinatura, e tutto rapidamente si frantuma, svelando violenze fagocitate, l’anelito continuamente represso all’evasione. L’odio si tramuta in un efferato corrispettivo dell’amore. «Noi non siamo che degli analfabeti dal punto di vista sentimentale. Ci hanno insegnato tutto sull’anatomia, sull’agricoltura in Africa, che la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa. Ma non ci hanno insegnato una sola parola sulla nostra anima. L’ignoranza su noi stessi e sugli altri è tragicamente totale», ammette Johan mentre sono intenti a firmare le carte per il divorzio. «Non ho mai pensato cosa voglio, ma solo cos’è che vuole lui che io voglio», confessa a sua volta Marianne. «Ma non era essere altruisti, come credevo prima. Era soltanto vigliaccheria. E quello che è peggio, un’assoluta ignoranza di me stessa». «Quanto ti odio, in fondo, Marianne. E quante volte me lo sono detto», le sibila il marito, prima di uno scoppio d’ira.

Il cinema ha proseguito il racconto di un’alienazione che, di volta in volta, ha allargato il suo spettro. Entra in gioco il disvelarsi di un desiderio connotato da una matrice politica: le coppie si allargano, sperimentano, contengono al loro interno le contraddizioni del presente. Ma la sensazione è che, al netto di tutte le narrazioni sul suo conto, essa sia rimasta inconoscibile. O quantomeno, sconosciuta. Come se non riuscisse a depositare l’enigma che continua a permearla dall’interno. È curioso, perché è ormai fagocitata da un abuso di informazioni e testimonianze a proposito dei suoi meccanismi, dei suoi costrutti. A parte al cinema, è in televisione che il feticismo nei confronti della coppia si sfoga in misura maggiore.

Il palinsesto delle emittenti nazionali è dedicato al dibattito, alla decostruzione e alla morbosa curiosità che le dinamiche dello stare insieme sollevano in chi le vive e in chi le osserva. Lo scorso agosto, Temptation Island è stato ancora una volta il programma più visto della prima serata di lunedì. Il perno narrativo della trasmissione è noto: alcune coppie, di solito in crisi, decidono di dividersi e di trascorrere un certo periodo su un’isola, dove verranno istigati al tradimento. Il pudore che prima costringeva le coppie borghesi a salvare le apparenze è definitivamente caduto. Oggi si rovista impunemente tra i recessi delle intimità degli altri, soprattutto in queste sedi. L’osceno, l’ostentazione, l’esibizione di dettagli che prima erano confinati tra le pareti domestiche sono proprio lo specchio per le allodole di centinaia di migliaia di spettatori che si vedono tacitamente rappresentati, che tacitamente si identificano.

Il punto è che nella maggioranza dei casi la coppia non sembra essersi liberata dalle formule e dai luoghi comuni che la caratterizzavano un tempo. Le donne sono sempre devote, sofferenti, in collera. Domandano insistentemente qualcosa ai propri uomini, che puntualmente disattendono queste promesse e rimangono passivi. Da parte loro, è una coltre di indifferenza. Lo conferma lo psicoterapeuta Gabrio Andena: «Alle donne viene ancora demandato il compito di tenere insieme la coppia», sostiene. «Una delle conseguenze del sistema patriarcale è che agli uomini mancano competenze affettive. Hanno difficoltà a trattare le emozioni simbolicamente. Oggi vengono magari esposte in maniera oscena, ma mai simbolizzate, mai concatenate. La famiglia continua a reggersi su questo presupposto, continua a reggersi sull’implicito accordo che la donna ragioni in questo modo, mossa cioè dalla sua finalità ultima, che è quella di restare incinta».

La coppia è rimasta a tutti gli effetti la sola possibilità ancora rimasta di sperimentare una condivisione, il prototipo di una collettività in miniatura. Conquistare e perdere una dimensione di armonia sentimentale è diventato il solo territorio esistenziale per il quale vale la pena lottare, esprimersi, disperarsi, partorire congetture. Tutte le proiezioni di felicità, realizzazione e scoperta di sé convergono lì. Essere tentati da un altro o da un altrove, dunque, equivale a rompere una condizione di stasi, di equilibrio, di aspettativa sociale: è il più tipico degli istinti di autodistruzione. L’identità si costruisce e si suggella soltanto all’interno di questo micronucleo. In sua assenza, si rischia di scomparire in quanto individui.

Come sostengono molte attiviste dei gruppi femministi, tra cui Michela Murgia, recentemente scomparsa, la coppia è disfunzionale proprio perché asfittica, limitata e ristretta. Due sole persone non bastano a contenere dentro di sé tutte le deviazioni, le sfumature e le antinomie del reale. Perciò, spesso, risultano lo scenario ideale per reiterare discriminazioni di genere. L’ideale sociale sarebbe riprendere ad abitare, come in passato, in grandi numeri sotto lo stesso tetto: privilegiare i gruppi, all’interno dei quali ciascuno ha la sua funzione, le generazioni si intersecano, i tipi umani sono molteplici. Altrimenti, continueremo a rimuginare sull’annoso quesito posto da Marcello Mastroianni in di Fellini: «Tu saresti capace di scegliere una cosa, una cosa sola e di essere fedele a quella, riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita, saresti capace?».

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