Cibo dalla terraLa rinascita del moco, seme antico e mai dimenticato

Simile alla cicerchia e tipico delle regioni liguri, sta vivendo una nuova vita. Scopriamo qualcosa in più di questo ingrediente poco conosciuto ma dalla storia antica

Foto di Tim Mossholder su Unsplash
Foto di Tim Mossholder su Unsplash

Il nuovo presidio Slow Food racconta la storia di un antico e prezioso legume perso e ritrovato. All’inizio del Novecento la coltivazione del moco, un piccolo seme – i baccelli contengono da uno a tre semi, grandi tra i quattro e i sei millimetri – simile alla cicerchia, era diffusa fra i calanchi della Val Bormida, in particolare sulle alture di Cairo Montenotte e Cengio, tanto che gli abitanti di Rocchetta, una frazione di Cairo, erano chiamati “mangia mochi”.

Caposaldo dell’allora poverissima alimentazione contadina, era una risorsa, specialmente negli anni di carestia, perché garantiva un importante apporto di nutrienti (proteine, fibre, amido, vitamine B, calcio e fosforo). Dopo la seconda guerra mondiale, con l’avvio dell’industrializzazione e il progressivo spopolamento delle campagne, gli agricoltori professionisti rimasti scelsero di produrre legumi dalle rese maggiori, che richiedono meno lavoro manuale, come piselli e fagioli.

Fino ad allora la pianta del moco, rustica, tenace, resistente ai parassiti e alla siccità, adatta anche a terreni poveri, non era mai mancata negli orti delle valli attraversate dai tre corsi d’acqua che confluiscono nel fiume Bormida. «Si seminava, e lo si fa ancora oggi, il centesimo giorno dell’anno, il 10 o l’11 aprile, sessanta giorni più tardi fiorisce e tra la fine di luglio e la metà di agosto si raccolgono i baccelli» spiega Gianpietro Meinero, segretario della Condotta Slow Food Alta Valle Bormida e referente del neonato Presidio. Il difetto? «Richiede molto lavoro: si semina a mano, si estirpano le erbacce a mano, si raccoglie a mano e non esiste neanche un setaccio che vada bene per tutti i semi, perché hanno dimensioni diverse». In cambio non prevede alcun trattamento chimico di sintesi e, come tutti i legumi, contribuisce alla fertilità del suolo.

La tradizione vuole che i produttori si riuniscano attorno a un tavolo e li sgranino a mano. «I semi più piccoli, quelli che tendono a spezzarsi, vengono macinati e trasformati in farina, con cui si prepara una deliziosa farinata» spiega il referente dei produttori, Elvio Bonino. «Gli altri, ideali per le zuppe, li confezioniamo interi in sacchettini».
Il moco è stato coltivato fin dalla notte dei tempi sull’Appenino a cavallo tra Piemonte e Liguria. Le prime notizie scritte, custodite nell’Archivio di Stato della Repubblica di Genova, risalgono alla fine del Settecento, ma si ipotizza che nel savonese, al confine tra le Alpi e gli Appennini, fosse coltivato già nell’Età del Bronzo, quattromila anni fa.

Oggi è di nuovo inserito nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Liguria, ma il suo recupero è iniziato nel 2012, coinvolgendo piccoli agricoltori consapevoli dell’importanza di preservare un prodotto tanto legato alla dieta contadina locale. Finora quattro produttori hanno aderito al Presidio, ma si spera di coinvolgere nel progetto l’intera valle, in particolare i giovani agricoltori. I quantitativi raccolti sono ancora ridotti: nel 2022 la produzione complessiva si è attestata sul quintale, ma rispetto alla situazione di dieci anni prima, quando la coltivazione del moco era praticamente scomparsa, secondo i responsabili del presidio si tratta di un risultato incoraggiante.

«Ho ancora in mente quando mio padre mi parlava del moco, negli Anni ’50» ricorda Meinero. «Poi, nel 2011, un anziano del paese mi ha detto che possedeva ancora qualche centinaio di semi. Ne abbiamo dato a un gruppo di amici una trentina ciascuno, il necessario per seminare un metro quadrato di terra, affinché li riproducessero. Così, in breve tempo, siamo arrivati al recupero. Non è ancora come all’inizio del secolo scorso, quando i fiori di moco, bianchi con screziature azzurre, coloravano le alture di Cairo Montenotte, di Cengio e degli altri paesi della valle Bormida. Ma ora, finalmente, il nostro legume è tornato».

Ed è tornato soprattutto per essere messo in tavola, quindi la domanda è d’obbligo: come si prepara? Come molti prodotti che arrivano dalla tradizione non è esattamente un instant food, dato che richiede un ammollo di ameno ventiquattr’ore. Dopo, il moco è pronto per essere cucinato in zuppe, minestre e insalate. Il sapore estremamente delicato lo contraddistingue nettamente dalle più comuni cicerchie. Si usa anche per la produzione di farina, che viene macinata a pietra ed è ingrediente per dolci, paste, sfoglie, impanature e, in particolare, per due preparazioni tradizionali: la farinata cotta in forno a legna e la panissa fritta o tagliata a cubetti con pomodorini e cipollotti.

Tipica la zuppa di mochi della Val Bormida, che richiede 500 grammi di mochi, 250 grammi di pomodori freschi, 100 grammi di pancetta, una cipolla, una carota, un gambo di sedano, olio extravergine di oliva, prezzemolo, basilico, sale e pepe. Dopo aver messo a bollire i mochi in acqua fredda salata per quaranta minuti si prepara il sugo facendo un soffritto a cui si aggiungono prima la pancetta, poi i pomodori e infine i mochi, proseguendo la cottura per quindici minuti circa. Si serve in tavola condendo con un filo di olio a crudo e una spolverata di pepe.

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