Rigoroso ed ecletticoIl dress code formale sta cambiando senza snaturarsi

Il “formalwear” è tornato in una nuova veste, divenendo versatile nei tessuti e nei colori più accesi, ma mantenendo intatta l’anima. Un fenomeno che fa parte del più classico pendolo modaiolo

Foto: Mattia Parodi | Styling: Marta Donadi

Quando Patrick Bateman entra nella lavanderia, e scopre che l’unica alternativa per ripulire le macchie di sangue dalla sua camicia è usare la candeggina, sul suo volto compare lo sguardo assassino che riserva alle sue vittime: «You can’t bleach a Cerruti! Out of the question!».

Un feticismo, quello verso il capo principe dei formalismi, che ha più a che fare con la psicologia che con il singolo capo in sé, per quanto ben confezionato. Un’ossessione verso gli stilemi che codificano il nostro posto nel mondo, che di recente è stata alla base di diverse sfilate. Nello show intitolato Black Tie di Maison Valentino (autunno-inverno 2023/2024) Pierpaolo Piccioli ha re-immaginato gli archetipi del dress code formale, con camicie cropped, colli da cui partono minidress con scollo all’americana ed ensemble cromatici che riprendono le copertine di album seminali dei Kraftwerk. Parimenti, a Parigi, Anthony Vaccarello, direttore creativo di Saint Laurent, ha mandato in passerella la sua personale riflessione sul power dressing, tutto silhouette conturbanti e maxi-spalle.

Una fisima di ritorno, quella verso l’abbigliamento “formale”, che non si aspettavano i professionisti del settore – che ne avevano decretato la morte ufficiale, individuando nella pandemia e nella prolungata permanenza tra le mura casalinghe, le cause del decesso – e che però fa parte del più classico pendolo modaiolo. Lo spiega Marco Luca Pedroni, professore di Sociologia dei processi comunicativi all’Università di Ferrara.

«Sin dagli anni Cinquanta e Sessanta, con la nascita del prêt-à-porter, l’aumento del numero dei designer, del pubblico dei consumatori e dei soldi e del tempo per crearsi una competenza in materia, ci si poneva il problema di che cosa quei consumatori avrebbero voluto per la stagione successiva: nasce così il fashion forecasting, lo studio e la previsione delle tendenze, che, come un pendolo, oscillava continuamente tra A e anti A, dal pantalone a sigaretta a quello a zampa. Dagli anni Novanta e poi dai primi Duemila, è cambiato il ritmo e l’accelerazione: se in passato un trend si sostituiva all’altro alla soglia della saturazione psicologica, oggi, per via dei social media, tutte queste tendenze di senso opposto oscillano a un ritmo impazzito e, in alcuni casi, convivono: non c’è in fondo niente di nuovo rispetto al solito meccanismo di propagazione degli stili», conclude Pedroni.

Foto: Mattia Parodi | Styling: Marta Donadi

I dati più recenti avvalorano le affermazioni di Pedroni: nell’annuale report The State of Fashion, prodotto dalla rivista Business of Fashion con McKinsey & Company, si sottolinea come questa tendenza sia più visibile, banalmente, nel guardaroba di lui, dove l’abbigliamento formale, rigoroso, è ritornato in una nuova veste, divenendo eclettico nei tessuti e nei colori più accesi, ma mantenendo intatta l’anima. Nel report, il formalwear viene diviso, per semplicità, in tre sotto-categorie: abbigliamento “da ufficio”, “da sera” e “da occasione”, inteso come evento pubblico. 

Secondo i dati raccolti, il 39 per cento dei dirigenti intervistati nel settore moda afferma che l’abbigliamento “da occasione” sarà di certo sul podio delle categorie merceologiche con i risultati migliori per il 2023. A beneficiarne saranno soprattutto quegli spazi di vendita online e offline che affittano abiti e capi: un mercato che nel 2025 varrà 2,1 miliardi di dollari e che vedrà la sua crescita guidata principalmente dall’affitto di outfit riservati a occasioni importanti. Il cambiamento di paradigma si ravvisa però anche nel mondo femminile: tra gennaio e ottobre del 2022 il numero di abiti formali o eleganti in vendita negli Stati Uniti è cresciuto dell’80 per cento, paragonato allo stesso periodo dell’anno precedente, secondo la piattaforma di market intelligence StyleSage, mentre le richieste di scarpe con tacco sono salite del 75 per cento rispetto al 2021. 

Oltre che frutto di un classico pendolo tra due (o più) forze diverse, questo processo ha anche delle radici culturali inerenti al mercato della moda. Dal 2015 in poi con l’avvento sullo scranno più alto dell’ufficio stile di personaggi come Demna Gvasalia da Balenciaga e Alessandro Michele da Gucci il fashion system ha fatto incetta di collezioni che portavano in allegato, sulle passerelle, messaggi sociali e politici, tanto più decisi quanto più erano eccessive le proposte di stile che sfilavano. 

Foto: Mattia Parodi | Styling: Marta Donadi

Con la dipartita di Michele da Gucci e il brusco cambio di direzione di Balenciaga – a seguito dello scandalo tutto digitale degli zainetti fetish per bambini – la forza sovversiva delle maison sembra essersi spenta, a favore di un amalgama più “rassicurante” e meno caotico che rielabora codici privi di criticità. A metterci il carico da novanta c’è stata sicuramente la situazione politica e sociale post-pandemica che, tra emergenze climatiche ed energetiche, di certezze ne offre poche. 

Ne è convinto Franco La Cecla, antropologo autore del libro La moda rende felice (per mezz’ora almeno) edito da Milieu: «Siamo in una fase di grande incertezza, che la moda cavalca, senza però essere capace di dare molte visioni sul futuro. D’altronde, da sempre, a livello culturale, le tendenze non sono anticipate dalle maison, ma da alcune fasce di popolazione che si appropriano di ciò che ritengono rilevante e che non necessariamente arrivano dall’Occidente». 

In effetti, è il caso dei Sapeurs (ossia appartenenti alla “Sape”, Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes, ndr) congolesi che già negli anni Ottanta, come forma di protesta politica, si vestivano in maniera eclettica, sfacciatamente elegante nonostante venissero da ceti poveri. Questa tendenza si trasferì con alcuni di loro in Francia per poi essere celebrata globalmente da pubblicazioni come Sapeurs: the Gentlemen of Bacongo di Daniele Tamagni, documentari, come quello prodotto da Guinness nel 2014 e persino da video musicali, come nel caso di All the Stars, canzone del Premio Pulitzer Kendrick Lamar, che nel 2018 regala un’elegia visiva della creatività stilistica prodotta in maniera autoctona dal Congo.

«La realtà è che la funzione della moda», prosegue La Cecla, «è quella di aiutarci a travestirci, mettere in discussione le identità fisse, con un certo grado di leggerezza, acquisendo delle identità senza esserne gravati. Un’operazione che però ha esigenze profonde, e risponde alla necessità di seguire letarghi stagionali, dai quali uscire diversi, rigenerati». E come usciremo da questo letargo, è ancora troppo presto per dirlo. Nel frattempo, sarà meglio dotarsi di camicie, ma soprattutto di lavanderie che sappiano che un Cerruti non si può candeggiare: è fuori questione.

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