A Uggiano, poco fuori dal paesino di 4.395 abitanti nel profondo della provincia leccese, c’è un posto nel quale la questione meridionale che afflisse Gramsci, si è risolta (o almeno, ci sono prove abbastanza convincenti per affermarlo).
La ricetta è del 1901, mischia psicologia montessoriana e metodo Steiner, femminismo e genius loci. «Quelle come le fondatrici, dalle mie parti le chiamiamo F’iminazze», asserisce non senza un certo orgoglio Maria Cristina Rizzo, ex sindaco di Uggiano e oggi presidente della Fondazione Le Costantine, riferendosi alla dinastia matriarcale che ha dato vita al progetto, una mezcla di apulo-americane attive nel movimento emancipazionista di inizio del secolo scorso.
Se oggi, infatti, le creazioni de Le Costantine – borse, tessili, ciabatte e tracolle, ma anche tappeti e tovagliette – hanno attratto l’attenzione di principesse, parlamentari e designer ultranoti che arrivano senza annunci roboanti del loro cv, è merito soprattutto di Carolina de Viti de Marco, «esponente di un’élite di filantropi laici e liberali, sostenitori di un meridionalismo non assistenzialista», come spiega la cartellonistica nelle sale del castello aragonese di Otranto, nelle quali è attualmente aperta una mostra dedicata alla storia secolare della Fondazione (Le anime del tessile, fino al 5 novembre).
Insieme alle figlie Lucia e Giulia Starace, alla cognata Harriet Lathrop Dunham (chiamata per semplicità Etta, moglie dell’economista Antonio De Viti De Marco) e sua figlia Lucia, fondano la scuola di merletto di Casamassella, con l’obiettivo di togliere le donne dai campi ai quali erano confinate, e donare loro un’arte da imparare e un’indipendenza economica, considerata un miraggio negli anni nei quali l’unico posto dove le donne erano ben accette era tra mure di casa.
Due anni dopo avviene l’ingresso nella scuola nelle Industrie femminili italiane (Ifi) antesignani delle cooperative nate però grazie al Consiglio nazionale delle donne italiane, con l’obiettivo, appunto, di promuovere l’occupazione e disincentivare lo sfruttamento. I merletti leggeri realizzati ai telai dell’Ottocento prendono subito il volo, arrivando all’Esposizione internazionale di Milano del 1906 (dove vinceranno la medaglia d’Oro) e poi negli Stati Uniti.
Nel 1910 toccherà a Lucia Starace (figlia maggiore di Carolina ed erede di una dinastia di armatori di Castellammare di Stabia trasferitasi a Gallipoli) esportare quel sapere anche all’estero. Raggiunta la maggiore età, andrà in Sudafrica su invito della pacifista inglese Emily Hobhouse. L’obiettivo? Creare una scuola di merletto modellata su quella di Casamassella, insegnando alle giovani boere l’arte del districarsi tra i licci (la parte del telaio che serve a muovere i fili dell’ordito).
I disegni geometrici sono spesso ispirati all’arte religiosa della Puglia, ai suoi rosoni e alle sue cattedrali. Le donne fondatrici studiano i punti antichi negli esemplari conservati nei musei e nelle scuole private, e collaborano con le “maestre”, le detentrici primigenie dell’arte, che poi passano di generazione in generazione. Un riformismo modernista che negli anni ha inglobato nel suo progetto di recupero sociale non solo donne, ma anche soggetti poliomielitici e, oggi, immigrati, che la fondazione – nata formalmente nel 1983 per volontà di Giulia Starace – accompagna nel percorso verso l’inserimento lavorativo, trovando aziende che offrano stage.
A guardare oggi la struttura della Fondazione Le Costantine, una masseria lontana da certi cartonati Instagram che in Puglia attraggono le masse dei turisti – una costruzione in pietra con il recinto per il cane, un albero di ulivo al centro di uno spiazzo dedicato alla ricettività per gli ospiti, Casa di Ora – si percepisce il lavoro pratico, privo di orpelli o concessioni all’estetica fine a se stessa, operato da queste donne straordinarie. Ad aver ereditato la loro missione, guidata dallo stesso spirito fattivo tipicamente pugliese, è l’avvocata Maria Cristina Rizzo, che – dotata di una personalità imponente di un entusiasmo contagioso – ci conduce per le stanze nelle quali le sarte sono ancora al lavoro sui loro telai, preparando commissioni private o pezzi che fanno parte della collezione della fondazione.
«Mio marito dice che ho l’hobby più costoso del mondo», ride lei, a sottolineare la dedizione totale a un progetto esercitato in qualità di presidente, e che però occupa buona parte del suo tempo, nonostante gli altri molteplici impegni, un’altra fondazione a Lecce di cui è presidente, e al suo studio legale.
Qualcuno ha preparato un caffè, «qui lo facciamo ancora con la moka», spiegano mentre gli aficionados delle tradizioni tra i giornalisti presenti esultano e si mettono in fila per un bicchiere di caffeina, condita dai pasticciotti che Rizzo ha portato dalla pasticceria poco distante. Nel laboratorio, se non fosse per la presenza inusuale dei giornalisti, regnerebbe un silenzio pacificato, interrotto casualmente dai movimenti dei telai, di macchine che parcheggiano all’ingresso – anche se le sarte arrivano qui in bicicletta, coprendo la distanza minima che separa Le Costantine da Uggiano – e da qualche animale poco distante.
«Lo avete sentito il gallo alle sette stamattina?», chiede Lena (Paiano), la sarta che vanta più anni di esperienza di tutte, più di quaranta, una che ha avuto la fortuna di imparare con le antiche maestre, diventandolo a sua volta. Oggi ricama al telaio con una precisione e una velocità che fanno sembrare facile un mestiere che richiede anni per essere eseguito con un grado di realizzazione finale quantomeno dignitoso.
Ci spiega le diverse tecniche, il fiocco leccese che porta il disegno in rilievo, il pinto (un tessuto operato il cui disegno viene registrato attraverso i fili dei licci), l’utilizzo dell’ago. Sì, ma qual è la cosa più difficile di tutte? Lena ride, e complice la similare provenienza (chi scrive viene sempre dal tavoliere, seppure in zone più vicine alla Valle d’Itria che alle terre dei Messapi) risponde con un antico detto della lingua locale: «Tilaru montato tesse pure la pupa», a sottolineare come l’operazione più complessa sia appunto quella della preparazione del telaio, dopo la quale persino i bambini sarebbero capaci di ricamare i motivi geometrici di borse e ciabatte.
Le altre annuiscono con ironia e riprendono a lavorare mentre nella stanza si espande ancora l’odore del caffè. La realtà è che il laboratorio di Tessitura “Cantando e amando”, riaperto poi nel 2001, è un esperimento sociale che negli anni ha attratto l’attenzione della Regione – con la quale collabora – e delle grandi maison. Le Costantine, ricordiamo, sono un centro di servizi formativi accreditato in Puglia, e dal 2013 sono attive per combattere la dispersione scolastica tra i minori. Tra questi cortili è passata qualche anno fa anche Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, alla ricerca di laboratori con cui collaborare per la sfilata Cruise 2021, ambientata proprio a Lecce.
«Suo padre è nativo di Tricase», spiega Rizzo mentre ci accompagna verso il ristorante dove ci si fermerà per il pranzo, alla guida della sua Panda. «Quando si è trattato di scovare laboratori locali con i quali pensare a una collezione dedicata al Salento, il sindaco di Lecce Carlo Maria Salvemini le ha consigliato me. Ricordo ancora la sua chiamata telefonica, mi ha detto “Maria Cristina ti devo passare una persona” e mi sono ritrovata a parlare con Maria Grazia Chiuri». Così il laboratorio, che di solito consta di sei sarte attive, ha aumentato la sua capacità produttiva a ventinove risorse, andando a ritrovare le antiche e ottuagenarie maestre che si sono messe a disposizione per ricamare gonne e completi poi apparsi in sfilata.
Un’occasione che ha attratto nuove leve a un mestiere che affronta ogni giorno il rischio di scomparire, considerata la mancanza del ricambio generazionale. Eppure Germana Negro, che si è laureata in giurisprudenza e per anni ha lavorato nell’azienda familiare, da Le Costantine è arrivata nel 2012 con un corso di formazione, ed è stata poi inglobata nella squadra nel 2020, quando la Fondazione aveva bisogno di mani in più per la collaborazione con Dior, e non è più andata via: «È un lavoro psicologico, che richiede concentrazione ma che ripulisce la mente da tutte le distrazioni, la sera torno a casa soddisfatta», racconta.
Un gruppo che riesce a fare onore alla missione originaria della fondazione, oggi luogo nel quale risuonano le voci e i passi di personaggi noti, «ma io li tratto uguale», specifica Rizzo, che prosegue: «Sarà forse per questa mancanza di deferenza che tutti si sentono a loro agio. Anche Maria Grazia è una persona diretta, pratica, la sento ancora spesso, si è appassionata del progetto e d’altronde il mio obiettivo è far capire che questa terra ha una ricchezza che va ben oltre le bellezze naturali, e lei lo sapeva già». Il cruccio che la attanaglia oggi è quello altrettanto pratico delle nuove generazioni che da questa Regione sono emigrate alla ricerca di un futuro diverso, e il cui ritorno attende con grande speranza.
«Con lo smart working e il Covid alcuni sono tornati, ma chi fa mestieri non necessariamente legati alla ricettività e al turismo è rimasto tra Roma e Milano. E invece qui, con le giuste idee e per chi ha una formazione universitaria, si vive dignitosamente, la qualità della vita è alta, e poi vuoi mettere venire a pranzare di fronte al mare?» chiede, mentre ci si trova all’esterno di un bar trattoria a Porto Badisco, di fronte a un piatto di insalata di polpo e patate, tra local e gli ultimi turisti della stagione che bevono un bicchiere di vino.
Anche il sindaco attuale di Uggiano è di passaggio per prendere forse del cibo da asporto, nel bar con le insegne della Gazzetta del Mezzogiorno e del Caffè Quarta ancora orgogliosamente esposte, e che rimandano agli anni Sessanta, i pavimenti in graniglia e un vecchio jukebox funzionante con la spina staccata. Maria Cristina Rizzo saluta tutti, presenta e intrattiene, e nel mentre cerca anche di convincere chi scrive all’esodo di ritorno a casa. Non è difficile capire perché sia riuscita a ridare lustro a un progetto come quello de Le Costantine: in questo matriarcato risolto, 3.0, evoluzione di un’attitudine pugliese al gineceo proattivo, ci si sente a casa, avvolte in una piacevole saudade ma con lo sguardo puntato al futuro.
Alle prossime passerelle da conquistare e alle prossime donne pugliesi da catechizzare, per convincerle a fare la loro parte nel progetto di ricostruzione di un meridione la cui narrazione non può più limitarsi alla natura di cui la casualità ci ha fatto eredi (e protettori). Assolvendo al proprio destino di F’iminazze dal 1901, e oltre.