La famiglia Bongo ha governato ininterrottamente il Gabon dal 1967 fino a tre giorni fa. La caduta di quello che a tutti gli effetti è stato un regime familistico, con l’avvallo delle elezioni, dovrebbe far felice qualcuno nel mondo, ma in realtà sta scontentando un po’ tutti.
In realtà, per quanto sembri assurdo, Ali Bongo, deposto da un colpo di stato militare, il quinto in Africa negli ultimi due anni, era – e forse è – ritenuto un interlocutore autorevole dalla comunità internazionale.
Sebbene sia piccolo e non abbia il peso istituzionale di Paesi come Nigeria, Algeria, Sudafrica, Egitto, il Gabon è molto importante, soprattutto perché è storicamente legato alle influenze cinesi nell’Africa Centrale. Affacciato sul Golfo di Guinea, il Gabon è ricchissimo di boschi e di aree naturali. Il suo sottosuolo è carico di materie prime e ciò rende ricco solo chi fa affari col Paese, mentre la sua popolazione vive molto al di sotto della soglia di povertà.
Nonostante sia un Paese strutturalmente povero, il Gabon è riuscito a ospitare, grazie all’influenza cinese, che ha garantito l’aiuto nella costruzione degli stadi, le edizioni 2012 e 2017 della Coppa d’Africa, la massima competizione calcistica per le nazioni africane.
Ora, la destituzione del presidente Bongo, l’ennesima nell’area francofona d’Africa, ha acuito i problemi di gestione di un Paese che, pur sotto dittatura, lo aveva appena riconfermato con il sessantaquattro per cento delle preferenze.
Se andiamo a vedere però la distribuzione dei voti, capiamo che la situazione era davvero ingestibile: Bongo ha vinto solo in tre delle nove province che compongono il Paese, quelle più orientali, mentre nelle altre sei ha dominato lo sfidante Albert Ondo Ossa. Per questo si poteva pensare che sarebbe successo ciò che meno di una settimana dopo è successo.
Bongo non gode più della stima e del sostegno di gran parte del Paese, che ora spera nell’esercito, che vorrebbe tenere su di sé il potere, ma che dovrà fare i conti con diversi punti di contrasto. Il governo cinese ha già intimato ai golpisti di reintegrare subito Bongo nella sua posizione e di smetterla di giocare ai rivoluzionari.
La Cina si espone raramente su queste questioni, ma il Gabon è davvero importante nei suoi piani e per questo Pechino ha bisogno di un interlocutore che si faccia garante dell’immagine internazionale del Gabon.
C’è però un dubbio sulla “mano” che ha spinto gli uomini del Generale Brice Clotaire Oligui Nguema. Nguema, che ha dichiarato di star gestendo solo l’interim e di non volere accentrare i poteri su di sé, non è solo un militare di grandissima esperienza, a capo della Guardia Repubblicana del Gabon: secondo il report del 2020 dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp), Nguema è milionario grazie a diversi investimenti negli Stati Uniti, principalmente nel settore immobiliare.
C’è dunque un rapporto tra quest’uomo e gli Stati Uniti, condizione che secondo alcuni osservatori dovrebbe far pensare a una matrice statunitense in contrapposizione alle relazioni filocinesi dell’ormai ex presidente Bongo. Ma il sostegno di Washington ai golpisti non è ancora stato confermato, né accertato da nessuno.
In generale, prima del golpe Nguema era il responsabile della sicurezza personale del presidente. Come nell’Impero romano, è stato l’uomo più vicino a tradire il dittatore, generando un domino che potrebbe avere conseguenze economiche importanti e che accende ancora di nuovo una luce oscura sull’Africa, che sta tornando a essere terra di conquista.
Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha garantito che i circa centocinquanta italiani in Gabon stanno bene e che non sono in pericolo, ma ha anche auspicato per una soluzione diplomatica.
Il problema è però sempre lo stesso: l’Unione europea agisce come un corpo unico in queste situazioni (accodandosi quasi sempre alle politiche francesi, visto che la Francia ha i rapporti più persistenti in determinate aree), ma non ha un esercito comune e non ha forza diplomatica pari a quella della Cina o degli Stati Uniti.
Quel che accadrà dopo non è dato saperlo: di sicuro erano decenni che non si assisteva a un’instabilità così diffusa nell’Africa francofona, che ora teme lo spettro di una nuova spartizione internazionale, meno evidente e forse più subdola del dominio coloniale, che è stato disumano, ma che quantomeno era sotto gli occhi di tutti.