Oggi ci siamo spinti molto oltre la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, aggiungendo al saggio di Walter Benjamin un altro necessario tassello: l’arte non solo è tecnicamente perfettamente riproducibile, ma è anche sfuggita all’esclusiva umana. DeepAI, Midjourney, Dalle-2, NightCafe, Craiyon, Pixray sono solo alcuni dei software in grado di generare immagini e contenuti multimediali di alta qualità. Così che dal dover essere molto bravi nel disegno o nella pittura, e dal dover studiare anni per migliorare le abilità e affinare le proprie tecniche, oggi occorre “solamente” essere capaci di descrivere ciò che si vuole (un quadro, un’immagine o una foto), nel modo più accurato e dettagliato possibile. Più la descrizione è minuziosa, più il risultato sarà soddisfacente.
Non che l’arte contemporanea godesse già di ottima salute: ne sono un esempio i celebri tagli di Fontana, che da anni animano il dibattito pubblico, ponendosi da spartiacque tra chi comprende e ne apprezza il messaggio prettamente concettuale e chi, invece, si rifiuta di definirlo artista, per la solita e ricorrente convinzione che – come un motivetto – recita «potevo farlo anche io». Invece che «il mio falegname con 30.000 lire lo fa meglio» forse oggi, diremmo quindi , che «Midjourney, gratis, lo fa meglio». Le prospettive per gli artisti, nel 2023, non sono dunque delle più rosee. Ma forse, non lo sono mai state. Che con l’AI scompaia il senso di fare arte e, con sé, il senso del provare a essere un artista e farlo di professione, è un timore attuale, ma forse infondato, soprattutto se si parla di arte contemporanea. Si pensi a Jon Rafman, artista digitale canadese che servendosi di software di AI realizza immagini raffiguranti figure antropomorfe grottesche e a tratti inquietanti «In un mondo in cui la verità è ancora più precaria delle idee, il mondo della post-verità si esprime anche attraverso mondi virtuali – ha raccontato in un’intervista-. Raramente la realtà ha avuto tanto bisogno di essere immaginata».
Il ruolo dell’artista, quindi, non è quello di limitarsi a produrre immagini e pezzi esclusivamente molto piacevoli a livello estetico, esercizi di stile o opere perfette a livello tecnico; il suo lavoro è quello di interrogarci, di sollecitarci, di disturbarci persino, senza temere di portare lo spettatore in quelle profondità dove si ritrova il senso di essere umani. La vera sfida per questa categoria, oggi, sta invece nel riuscire a farsi strada, a ricavare il proprio spazio in un ambiente ipercompetitivo, perennemente (apparentemente) saturo di contenuti, di intuizioni, di idee.
«Io progettavo grandi cose accessibili sia ai giovani artisti, sia a un pubblico trasversale, che prevedevano la collaborazione delle istituzioni civiche, volevo fare qualcosa di importante per la mia città, ma non accadeva nulla», racconta a Linkiesta Etc Caroline Corbetta, curatrice d’arte contemporanea, consulente e giornalista culturale. Conosciuta durante la seconda edizione di GIADA Academy, un evento dedicato alle donne appassionate di arte e cultura alla biblioteca Braidense di Brera, Corbetta racconta come il mondo dell’arte sia molto escludente e competitivo, soprattutto per i più giovani. «Le regole di questo ambiente sembrano quelle di una setta religiosa – continua -. È una battuta, ma in effetti racconta della percezione di un sistema basato su dogmi, regole occulte e poteri gerarchici. Ci vuole davvero tanto coraggio per un artista che voglia fare del suo talento un destino condiviso col pubblico, ovvero una professione». «Ma anche fortuna – conclude -. I fattori in gioco sono imponderabili. Il talento, da solo, non basta».
Con l’intento di aprire una finestra sul mondo dell’arte contemporanea, nel maggio 2012 presso la trattoria “Il Carpaccio” di Porta Venezia, apre “Il Crepaccio”, una vetrina espositiva senza vincoli né finalità economiche, che negli anni successivi si è spostata su Instagram . «Doveva essere una crepa nel sistema, in cui gli artisti potessero fare i loro piccoli grandi esperimenti e io tastare nuove modalità di fare il mio lavoro», racconta Caroline Corbetta. Così, con la benevolenza di Gino, il proprietario del ristorante, lo spazio fu inaugurato con un’installazione site-specific di Serena Vestrucci, che fece da apripista per i successivi centrotrenta artisti che nei quattro anni successivi hanno animato delle vere e proprie feste di strada. «Buttiamo gli artisti nel crepaccio e solo chi sopravvive ha delle possibilità di farcela nel durissimo mondo dell’arte – continua Corbetta -. Era una sorta di rito d’iniziazione a un sistema ultra-competitivo, in cui migliaia e migliaia di persone cercano di accedere ma ce la fanno davvero in poche. Pochissime».
«È tanto una questione di tenacia, di carattere. È un mondo di squali, trovi persone disposte a sfruttarti in ogni modo – racconta a Linkiesta Etc Aronne Pleuteri, giovane artista di Erba laureatosi a Brera, che da qualche anno sta provando a trovare il suo spazio nel mondo dell’arte contemporanea -. La cosa ancora più difficile è però riuscire a regolare gli spazi privati (quelli propri dell’artista) con gli spazi della spettacolarizzazione, della visibilità, del pettegolezzo. Creare uno spazio di tutela, dove io possa ancora produrre con calma, con i miei tempi, senza le richieste aggressive e inumane dei ritmi di un mondo totalmente guidato dal mercato. È difficile darsi dei tempi legati alla vita e non legati alla produzione a tutti i costi».
Nonostante su piattaforme come TikTok sia molto facile diventare virali seguendo qualche accortezza, passare dal vantare un’audience illusa dall’algoritmo di aver scoperto un artista quasi per caso mentre si cercava altro (la cosiddetta serendipity), a convincere anche un pubblico offline, non è così semplice e cavalcare l’onda dell’ultimo trend si rivela, in questi casi, insufficiente. «Nella marea di immagini concepite da professionisti e dilettanti per catturare click è difficile capire se ci sia effettivamente spazio per un tipo diverso di immaginario – com’è quello artistico – che non deve per forza puntare a una seduzione visiva immediata, ma è invece capace di sollecitare un coinvolgimento che non sia solo sensuale, ma anche intellettuale. Che sia arte e non creatività. Rilevo una tendenza per cui non c’è molto interesse a democratizzare l’arte ma piuttosto a mercificarla, svuotarla di significati profondi e renderla innocua e decorativa mentre l’arte è ancora uno strumento potente di libertà a disposizione dell’umanità», chiude Corbetta.