Scrittore, saggista e adesso anche romanziere. Giuliano da Empoli abita a Saint-Germain-des-Prés, lo stesso quartiere di Parigi dove ha sede Sciences Po, il prestigioso istituto di studi politici in cui insegna Politica comparata, una delle grandi scuole internazionali che seleziona e forma le future classi dirigenti del Paese. Una nazione in cui ha trovato il suo habitat più congeniale. «La Francia ha due cose che mi stanno molto a cuore, la politica e la letteratura. Andando fino in fondo, questa è probabilmente la ragione per la quale io sono qui. Non c’è un altro posto dove questi scambi siano così intimi. Non è così in Italia, dove le due dimensioni, pur incontrandosi, restano comunque molto più separate rispetto alla Francia, un luogo nel quale da secoli tutti i politici vogliono essere romanzieri e tutti i romanzieri vogliono guidare il Paese.»
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Per da Empoli il potere è una lente di ingrandimento sui caratteri e sui sentimenti delle persone, su chi sono e su come si comportano. Qualcosa di molto presente nel corso della sua vita, da cui in fondo è affascinato, ma con un atteggiamento di méfiance, diffidenza. «Per varie ragioni mi sono trovato, anche in contesti familiari, ad assistere a una versione del potere che racchiude la violenza». Giuliano è figlio di Antonio da Empoli, morto nel 1996 ad appena cinquantasette anni in un incidente stradale. Economista, dal 1983 al 1987 capo del dipartimento Affari economici della presidenza del Consiglio dei ministri e dal 1987 al 1992 capo del dipartimento del Mezzogiorno sempre della presidenza del Consiglio dei ministri. Nel 1986 rimase ferito a Roma in un agguato dell’Unione comunisti combattenti. «Finché eravamo in Francia o in Belgio, dove mio padre lavorava nelle organizzazioni internazionali, avevamo una vita abbastanza tranquilla. Quando avevo dieci anni siamo rientrati in Italia perché mio padre fu chiamato a fare il consigliere economico del governo. Dopo due anni, rimase vittima di un attentato delle post Brigate rosse. La violenza legata alla politica è quindi una cosa che io ho vissuto intimamente. Ero dodicenne quando subì quell’attacco e da allora è rimasto ben presente in me l’elemento di violenza del gioco politico, dell’estremismo a cui può arrivare».
Anche da questo evento, forte e personale, da Empoli ha tratto una considerazione più generale sull’apparato politico e sul ruolo di argine che può svolgere nella società. «Penso che lo scopo della politica sia semplicemente impedire che la gente si ammazzi. Quando un sistema politico smette di funzionare o non funziona bene, prevale la violenza. La politica, quindi, trae da questo la sua essenzialità, motivo per cui penso che serva. Ho molto rispetto per l’attività politica, però credo anche, proprio per questa ragione, che il sistema politico e il gioco del potere concentrino in sé un tasso di violenza molto elevato, attirando persone che spesso hanno insita una componente violenta che poi per fortuna, nella nostra società, rimane allo stato simbolico, ma che è comunque presente. Al tempo stesso considero che sia una delle attività fondamentali dell’uomo e della donna.»
Vivere da vicino un’esperienza familiare così potente senza avere, come è normale per un bambino, gli strumenti per affrontarla, si è rivelato per da Empoli una vicenda traumatica per due ragioni. La prima è il contesto da cui proveniva, molto sicuro e protetto. «La vita del funzionario europeo a Bruxelles era abbastanza quieta». La seconda riguarda gli strascichi dell’attentato. «C’era l’idea che questa cosa non fosse del tutto chiusa. Mio padre ha vissuto sotto scorta per il resto della sua vita. Lo dico con riconoscenza verso l’Arma, il suo agente era un carabiniere, ma questo ha cambiato anche fisicamente la nostra vita. Ciò nonostante, non posso dire di avere avuto un’adolescenza infelice».
Nel corso degli anni, tutto quello che poi ha realizzato non è motivato soltanto da quel trauma, ma è comunque la traccia di quell’evento fondativo. Un’impronta rimasta fino a oggi, che ne ha influenzato il percorso. «Credo che sia veramente qualcosa di ambivalente. Da un lato, trovare in fondo tutto questo molto eccitante, considerare l’attività politica la cosa più forte, più emozionante. Sentire quindi che c’è un’attrazione nei confronti del desiderio del gioco politico. Dall’altro però c’è anche molta diffidenza, termine perfino troppo debole, se non repulsione. Sicuramente c’è una paura di fronte alle possibili conseguenze a cui può portare».
Profondamente toccato, seppure in modo indiretto, dalla lotta armata, da Empoli considera «un abominio» la posizione di Parigi sulla mancata estradizione degli ex terroristi italiani di estrema sinistra, rifugiatisi in Francia dopo aver abbandonato le loro attività criminali. Pur sentendosi «molto legato» alla Francia e avendo «stima del funzionamento del sistema e dell’élite francese», definisce la cosiddetta dottrina Mitterrand «uno degli angoli morti che persiste tuttora in Francia». In base alla decisione politica presa nel 1985 dall’allora presidente francese, i terroristi italiani, che avevano rotto in modo evidente con l’estremismo e l’illegalità e avevano iniziato una nuova vita in Francia, non sarebbero stati estradati, a meno che non fossero state fornite prove di una loro «partecipazione diretta a crimini di sangue». Una posizione che da Empoli non condivide. «La simpatia, anche proclamata, nei confronti di queste figure persiste e non ha più nessuna giustificazione storica. Ne ho una pessima opinione, è un gesto fatto per parlare a tutto un piccolo mondo di radicalismo di sinistra, ma sin dall’inizio è una linea completamente ingiustificabile nei confronti dell’Italia. Per fortuna ne resta poca traccia, semplicemente perché quella fase storica va esaurendosi, ma rimane comunque una macchia, non enorme, sui rapporti tra Italia e Francia, che in effetti a me tocca in modo particolare.»
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Da Empoli ha la doppia cittadinanza, italiana e svizzera, non quella francese che è comunque nel diritto di ottenere sia per nascita, sia per il matrimonio, ma della quale finora non aveva sentito un particolare bisogno. Oggi, però, la riconoscenza che ha verso la Francia è talmente alta da portarlo a desiderare di esserne un cittadino anche nei documenti d’identità. «Non in sostituzione delle altre nazionalità, ma in aggiunta. È un Paese che per me è stato importante per tutta la vita. Io sono innanzitutto italiano, non vorrei mai sminuire la mia origine, però la Francia mi ha dato molto, prima culturalmente e poi accogliendomi. Da quando ho deciso di vivere, pubblicare, scrivere e insegnare qui, ho trovato un sistema aperto, generoso, molto affine a me». Un’affinità che si manifesta principalmente nella possibilità di portare avanti le due dimensioni che lo rappresentano di più, politica e cultura, un binomio intellettualmente molto stimolante. «Inoltre, da un punto di vista più personale, trovo che qui ci sia un buon equilibrio fra la componente latina, che comprende una certa leggerezza, l’ironia, una qualità di vita e di rapporti tra le persone, però combinata con una serietà e con un rigore nell’approcciare le cose. Una fusione tra leggerezza e disciplina che mi corrisponde.»
Non è così in Italia dove per lui la bilancia pende di più verso la dimensione latina. Ci si diverte di più, lo scherzo va più lontano, tutti aspetti molto piacevoli, ma, secondo da Empoli, con meno sobrietà. «In Italia, a tutti i livelli, si può trovare gente molto seria, molto capace, molto preparata e allo stesso tempo anche molta più incompetenza, se non cialtroneria assoluta. Non dico che in Francia non accada, ma succede molto meno.» Della classe dirigente francese in generale, da Empoli ha un’ottima opinione, seppure sia criticata perché ha il difetto di tutti i gruppi sociali. «Essendo costituita da persone che hanno codici in comune, che spesso hanno fatto le stesse scuole, ha la tendenza a essere omogenea, a volte con una forma di conformismo intellettuale.» Un difetto frutto di un privilegio, il luogo nel quale la classe dirigente si forma. «Qui c’è una struttura secondo cui, per arrivare a certe posizioni, bisogna seguire un cursus di studi che, se da un lato ha il vizio di formattare, come tutti i percorsi di questo tipo, dall’altro ha la qualità di imporre delle prove. In Francia è molto raro trovare in posizioni apicali o nella classe dirigente figure che non hanno la competenza e la preparazione per ricoprire quel ruolo». […]
Uno dei suoi punti di osservazione della società francese è Sciences Po, l’università dove insegna Politica comparata. Si definisce un professore «un po’ paradossale» a cui piace portare ai suoi studenti, con i quali sostiene di intendersi molto bene, lezioni che lui stesso avrebbe voluto seguire, con un approccio sia letterario, sia pratico, analizzando la politica anche attraverso strumenti come una serie televisiva o un romanzo. «Il mio corso ha un titolo bizzarro, “Dalla poesia alla prosa. Come si passa da una campagna elettorale al governo”. Riprende una frase di Mario Cuomo, ex governatore dello Stato di New York, secondo il quale si fa campagna elettorale in poesia e si governa in prosa. Insegno per piacere, non per dovere. Potrei anche non farlo, non sono un accademico nel senso classico, ma mi diverte. Non faccio però un corso di Scienze politiche che, come molte scienze sociali o scienze umane, hanno storicamente sofferto del non essere scienze dure, di non avere cioè il rigore della matematica e della fisica e quindi cercano di dotarsi di tutta una serie di strumenti, di parametri per assomigliare il più possibile a quelle. Io in questo sforzo non ho mai creduto. La caratteristica delle scienze politiche, come di tutto quello che è legato ai comportamenti umani, è la componente di imprevedibilità, di irrazionalità, di contraddizioni, di incertezze, di ambiguità con cui bisogna essere pronti a fare i conti».
Estratto da “Les italiens. Storie e incontri con talenti italiani che hanno conquistato la Francia” (Rizzoli), Dario Maltese, pp. 300, 17,58€ . Dal capitolo “Méfiance – Giuliano da Empoli”.