A pugno alzatoIo non sono chi pensate che io sia

Il musicista Jon Batiste racconta come ha cercato di rimanere un elemento di rottura nonostante faccia parte di istituzioni prestigiose: «Preferisco costruire ponti e favorire cambiamenti dall’interno»

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Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse, oppure in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

Io non sono chi pensate che io sia. Vengo da New Orleans – e questo probabilmente lo sapevate già. Ma come sono arrivato qui? Forse pensate che io sia solo un ragazzo privilegiato, benedetto da un talento musicale donatomi da Dio per il quale non ho dovuto darmi da fare. Forse pensate che, non appena da ragazzo mi sono seduto al pianoforte e ho iniziato a suonare, mi si sia spalancata davanti ogni porta e che abbia percorso uno scivolo verso il successo. Sono onesto: probabilmente lo penserei anch’io.

Voi non potete sentire quello che c’è dietro. La fatica e il sacrificio, la visione e l’impegno. Una spinta quasi religiosa verso la competizione, alimentata da una motivazione innata a perseguire la grandezza, e cioè uno standard che è stato stabilito da miei antenati personali e spirituali: Louis Armstrong, Duke Ellington, Alvin Batiste. Voi non potete sentire la traccia delle notti in cui la mia cena era solo una scatola di fagioli Goya, di quando indossavo vestiti presi in prestito e facevo concerti gratuiti – dell’incertezza e della mancanza di risorse, di denaro e di sostegno.

Ve lo assicuro: io non sono chi pensate che io sia.

Io non rappresento lo status quo. Io sono un bootstrapper, uno che si è fatto da sé, uno che agevola il cambiamento. Sono un elemento di rottura. Ma il mio personale modo di essere un elemento di rottura è agire dall’interno. Il miglior esempio di tutto questo sono i miei rapporti, nel loro complesso, con la Juilliard School. Basterebbe dire che il mio periodo da studente è stato complicato.

Quando a 17 anni andai a New York per la mia audizione, non avevo mai visto la neve. E la Juilliard non era un posto di cui all’epoca sapessi molto, se non che era un’“istituzione prestigiosa”, qualunque cosa questo volesse dire.

Non sapevo ancora suonare leggendo lo spartito a prima vista. Ho iniziato a studiare il pianoforte molto tardi, a undici o dodici anni, e non avevo quindi avuto molto tempo per poter sviluppare questa capacità. Durante l’audizione ero riuscito a cavarmela bene senza dover fare i conti con questa mia lacuna finché, proprio alla fine, non mi hanno messo davanti uno spartito e mi hanno chiesto di suonare. Per fortuna conoscevo già un po’ quel brano e avevo molta esperienza nell’improvvisazione. Ce la feci. E così quel ragazzo di Kenner, Louisiana che ero allora dovette racimolare un po’ di soldi per comprarsi degli stivali adatti alla neve.

Una volta svanita la mistica iniziale, la mia permanenza alla Juilliard è stata vorticosa. Illuminazioni artistiche, costruzione di una comunità, lotte con l’autorità e dubbi paralizzanti su me stesso: non mi sono fatto mancare niente. Ed è stato ben presto chiaro che la mia filosofia riguardo alla musica era in contrasto con quella proposta dall’istituzione.

Per far crescere la mia reputazione e per migliorare le mie capacità, da studente ho trascorso la metà del mio tempo fuori delle mura della Juilliard, accettando tutti i concerti che potevo e intrecciando nuove relazioni professionali. Iniziai a suonare la diamonica – che è una tastiera portatile simile a un’armonica (e molto più leggera di un pianoforte). La mia band, che si chiamava Stay Human, si esibiva spesso in metropolitana. Facevamo quelle che definivamo “rivolte d’amore” per le strade, finché qualcuno non chiamava la polizia. E cominciavo a credere davvero di saper suonare.

A quel tempo, però, la Juilliard riteneva che l’unico imperativo fosse la competenza, e che semplificare l’arte per rivolgersi a un pubblico più ampio, che andasse oltre quella cerchia che era provvista delle conoscenze intellettuali e accademiche per “comprenderla”, non fosse una priorità. Più passava il tempo e più diventavo insofferente verso i tentativi della scuola di tenermi a freno. Le sanzioni disciplinari mi colpivano ormai a cadenza settimanale. Alla fine, mi venne dato un ultimatum: prendermi un anno di pausa o essere cacciato.

Scelsi la prima delle due opzioni.

Nei dodici mesi successivi ho viaggiato per il mondo, imparando dalla maestria di musicisti come Cassandra Wilson, Roy Hargrove e molti altri. Non volevo limitarmi a una sola definizione della parola “jazz”, ma volevo sperimentarne varie forme. Puntavo a crearmi un personale contesto e a trovare una mia precisa collocazione nell’ambito della cultura popolare.

Quel periodo passato a suonare in giro alimentò quel fuoco che si stava accendendo in me, ma che non aveva ancora trovato il combustibile adatto. Eppure, invece di continuare i miei studi “sul campo”, ho scelto di tornare a scuola. Volevo portare quella rinnovata fiducia in me stesso, quelle esperienze e quelle prospettive alla Juilliard per capire come fondere ulteriormente i due mondi. Perché ciascuno dei due contesti aveva qualcosa da imparare dall’altro e sentivo di essere il facilitatore perfetto per costruire un ponte che li unisse. E, tra l’altro, dovevo ancora imparare a suonare leggendo lo spartito a prima vista.

Ma premiamo il tasto fast forward e veniamo a oggi: il ragazzo di Kenner, Louisiana a cui era stato dato un ultimatum e che aveva rischiato di dover lasciare la scuola, il ragazzo che non aveva mai visto la neve, che non sapeva suonare leggendo lo spartito a prima vista e che non avrebbe potuto permettersi di frequentare il college senza una borsa di studio è entrato a far parte del consiglio direttivo della Juilliard.

La mitologia legata alla competenza per cui quella scuola è nota corrisponde al vero. Per entrare alla Juilliard, bisogna avere una grande competenza, nonché un talento e un’etica del lavoro di altissimo livello. Al tempo, tornai a scuola come studente per accrescere la mia competenza. E il motivo per cui ci sono tornato ora è che quella mitologia si è evoluta e, insieme, vogliamo continuare quell’evoluzione, esplorando l’arte, il senso di comunità e la visione olistica dell’umanità che ho iniziato a definire per me stesso nel periodo in cui ho studiato alla Juilliard.

Questi cambiamenti sono come un’onda che si sta formando e che avvicina l’istituzione alla cultura. Mantenendo lo stesso standard di altissima qualità, ma raggiungendo un maggior numero di giovani in tutto il mondo.

In qualità di membro del board of trustees, continuerò a sostenere gli artisti che, come me, vogliono uno spazio per plasmare e modellare le loro idee, allo scopo di ampliare il panorama culturale con i loro superpoteri creativi. Vogliamo che i nostri studenti abbiano un ruolo di primo piano nell’ambito culturale e siano promotori del cambiamento. Vogliamo che i laureati introducano nuove idee, sviluppandole in un luogo in cui domina la competenza ma trasmettendole poi anche a chi è al di fuori della bolla accademica. Se siamo disponibili a condividerle, le nostre esperienze collettive in questa vita possono diventare lo strumento più prezioso attraverso cui sconvolgere lo status quo e agevolare un vero cambiamento. Che cosa faccio io? Come ho già scritto, agisco dall’interno. Prestate molta attenzione: io non sono chi pensate che io sia.

© 2023 JON BATISTE

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse, oppure in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

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