La tigre biancaL’autoritarismo di Modi potrebbe diventare un problema morale per l’Occidente

Gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali stanno rafforzando i legami con l’India in risposta alle tensioni geopolitiche con Russia e Cina, ma il caso dell'assassinio di Hardeep Singh Nijjar, un leader del separatismo Sikh in Canada, potrebbe complicare il rapporto con Nuova Delhi

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Gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali stanno coltivando relazioni sempre più intense con l’India, con l’obiettivo di costruire un asse economico e diplomatico che dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la crescente assertività della Cina è diventato quasi un imperativo geopolitico. Il vertice del G20 a Nuova Delhi per molti aspetti ha consacrato l’apertura occidentale nei confronti di questa potenza emergente del Sud globale, offrendo al mondo un’immagine di ottimismo e cooperazione in un momento storico in cui il futuro appare sempre più incerto e bellicoso. Tuttavia, la vena autoritaria del premier indiano Narendra Modi sta crescendo di pari passo con il riconoscimento internazionale del paese che governa da quasi dieci anni, diventando sempre più difficile da ignorare. 

La crisi diplomatica tra Canada e India dopo l’uccisione di Hardeep Singh Nijja, un leader indo-canadese del separatismo sikh assassinato il 18 giugno di quest’anno, sta mettendo in evidenza i limiti dell’abbraccio politico con Modi, un leader forte e carismatico che ha una sua visione ben precisa del mondo, che non corrisponde a quella dell’Occidente.

Dal 2014 a oggi Modi ha costruito una solida base politica e ha cercato di proiettare la potenza dell’India all’estero, anche nelle operazioni di intelligence. Il leader indiano e le figure chiave del suo partito Bharatiya Janata sono stati anche accusati sia in India che all’estero di alimentare il settarismo, di minare i valori laici della repubblica indiana, e di ostacolare o prendere di mira giornalisti e gruppi della società civile. Finora gli occidentali hanno mantenuto un certo riserbo su queste preoccupazioni, ma se le accuse di un assassinio extraterritoriale in Canada organizzato (o appoggiato) dal governo indiano si rivelassero vere non potrebbero più restare in silenzio.

Secondo fonti del Financial Times presenti al G20 di Nuova Delhi, in un incontro privato Joe Biden e alcuni leader dei Five Eyes – l’alleanza per la condivisione dell’intelligence tra Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Nuova Zelanda e Australia – hanno discusso con Modi il caso dell’omicidio di Nijjar. Nella stessa giornata, in un incontro privato Modi e il premier canadese Justin Trudeau si sarebbero scambiati parole taglienti riguardo alle attività anti-India della vasta comunità canadese di separatisti sikh, ovvero movimenti favorevoli alla creazione di uno stato indipendente del Khalistan nel Punjab indiano, dove il cinquantotto per cento della popolazione è di religione sikh. Tornato a Ottawa, Trudeau ha annunciato che secondo l’intelligence canadese nell’assassinio di Nijjar sono coinvolti alcuni agenti indiani, aprendo una crisi diplomatica che può diventare insanabile. 

Nuova Delhi ha respinto ogni accusa, definendo il Canada «un rifugio per terroristi, estremisti e crimine organizzato». Canada e India hanno espulso alcuni diplomatici, mentre il governo indiano ha smesso di fornire visti a un paese dove vive una delle diaspore indiane più grandi del mondo: circa settecentomila cittadini indiani residenti, e più di un milione e mezzo di canadesi di origine indiana. Il caso offre una panoramica sulle lacerazioni della società e della politica indiana, e sulle sue ramificazioni internazionali. 

Nijjar infatti era un cittadino canadese immigrato dall’India che viveva in Canada dagli anni Novanta e si batteva per la creazione del Khalistan. Negli anni Ottanta e Novanta il movimento separatista sikh è stato protagonista di campagne violente nel Punjab, e oggi la sua causa è sostenuta soprattutto dai punjabi sikh emigrati all’estero. 

In Canada c’è una delle comunità più numerose della diaspora indiana, e la più grande comunità sikh fuori dal Punjab: ottocentomila persone su quaranta milioni di abitanti (il 2,1 per cento della popolazione). Anche in India i sikh sono una piccola minoranza, meno di ventuno milioni di persone su un miliardo e quattrocentomila abitanti (l’1,7 per cento della popolazione), ma si tratta di una comunità legata ad alcuni degli episodi più violenti e traumatici della storia recente dell’India.

Nel 1984 la premier Indira Gandhi aveva mandato l’esercito a sgomberare il tempio d’oro di Amristar, il luogo più sacro del sikhismo dove si erano asserragliati i separatisti armati sikh per difendere il loro leader. L’esercito fece centinaia di vittime. 

Pochi mesi dopo due guardie del corpo sikh della premier Gandhi la uccisero per vendetta, un assassinio che scatenò un’ondata di violenze in tutto il paese in cui morirono migliaia di sikh. L’anno successivo, alcuni terroristi separatisti sikh misero una bomba su un areo passeggeri dell’Air India in volo da Montreal a Londra, uccidendo trecentoventinove persone. La maggior parte delle vittime erano canadesi di origine indiana. 

Nuova Delhi si lamentava da anni con Ottawa per le attività dei separatisti sikh della diaspora, ma i governi canadesi hanno sempre replicato che il Canada garantisce il diritto di parola e la libertà di manifestare. 

Nel 2020 le autorità indiane hanno designato Nijjar come terrorista e, secondo l’associazione dei sikh canadesi, l’attivista era stato avvertito dall’intelligence canadese che c’erano minacce contro di lui. Inoltre, e non è un dettaglio secondario, la coalizione del governo Trudeau è sostenuta dal Nuovo partito democratico il cui leader è Jagmeet Singh, un sikh che non ha mai nascosto la sua antipatia per Modi.

L’opinione pubblica indiana si è per lo più schierata a sostegno di Modi chiedendo al Canada le prove a sostegno delle sue affermazioni di Trudeau, e anche il National Congress – il principale partito di opposizione indiano – ha espresso il suo sostegno al governo. Pertanto, ci sono tutti gli elementi affinché l’escalation diplomatica sfugga completamente di mano.

Il caso Nijjar sta creando disagio alla Casa Bianca facendo rivivere le domande scomode che erano state poste a giugno quando Modi visitò Washington. Biden veniva rimproverato di non assumere una posizione più dura sul rispetto dei diritti umani in India. Se emergeranno prove schiaccianti a sostegno delle affermazioni del Canada, gli Stati Uniti si troveranno ad affrontare un difficile atto di equilibrio e riscrittura della narrazione.

Solo due settimane fa Modi accompagnava a piedi nudi i leader occidentali a deporre corone di fiori al memoriale di Mohandas K. “Mahatma” Gandhi a Nuova Delhi, presentando l’India come il tedoforo della coesistenza pacifica, dell’armonia e dell’inclusività. Ora invece sembra determinato a sfidare i suoi accusatori di fronte a qualsiasi prova, presupponendo che Washington non romperà il suo impegno strategico nei confronti di Nuova Delhi. 

Probabilmente è corretto, i partenariati con l’India hanno ben poco a che vedere con i valori democratici condivisi e molto sulle reciproche preoccupazioni nei confronti della Cina. Ma qualcosa si è già rotto, e adesso l’Occidente è più consapevole di avere un problema con Modi.