Gli orti urbani occupano una posizione per certi versi ingiusta all’interno dell’immaginario collettivo. Spesso vengono associati a progetti costosi, elitari e un po’ hipster sui tetti newyorchesi, ma in realtà rappresentano la più umile e democratica occasione di incontro tra cittadini e natura. Parliamo di spazi verdi di proprietà comunale che vengono affidati a persone o associazioni per la produzione di frutta, verdura, fiori ed erbe aromatiche. E come ogni area naturale all’interno delle città, anche gli orti urbani sono una fonte di aggregazione, socialità e cultura.
Secondo l’Istat, uno dei periodi d’oro degli orti urbani italiani è stato tra il 2015 e il 2019: in cinque anni, il numero di questi spazi è cresciuto del diciotto per cento, per una superficie totale che ha toccato quota 2,1 milioni di metri quadrati. Poi è arrivata la pandemia, che ha permesso a cittadini di ogni età di (ri)scoprire la passione per il giardinaggio, l’agricoltura e tutto ciò che riguarda il rapporto tra città e natura.
Il verde – anche grazie ai suoi benefici sulla salute mentale – è diventato il nostro momento preferito di evasione, non importa se nel balcone di casa, sul tetto di un palazzo o in mezzo a un parco. Quattro italiani su dieci, secondo Coldiretti, ai tempi coltivavano frutta e verdura in giardini, terrazzi e orti urbani «spinti dalla crisi economica generata dal Covid e dalla voglia di trascorrere più tempo all’aperto».
Quello attuale può essere definito il periodo della maturità degli orti urbani, che stanno acquisendo forme sempre più strutturate. Un esempio calzante è quello del “community garden”, un’evoluzione in stile anglosassone di quelli che spesso in Italia chiamiamo orti sociali.
I “giardini di comunità” vengono coltivati da più persone, che non si limitano a curare frutta e verdura, ma sfruttano gli spazi per fare cultura a trecentosessanta gradi: dall’alimentazione all’agricoltura, passando per tutti i processi che riguardano la sostenibilità (non solo ambientale) delle grandi città, luoghi sempre meno accessibili per le classi meno abbienti della popolazione.
In Italia, uno dei “community garden” più virtuosi – su cui ci soffermeremo in seguito – si trova a Firenze, in Borgo Pinti 76. Il suo nome, non a caso, è Orti Dipinti, ed l’unico orto urbano al mondo all’interno di un’area protetta dall’Unesco. Quella che ai tempi era una pista di atletica, oggi è una sorta di giardino segreto in cui la biodiversità regna sovrana. Un luogo – per citare il loro sito – «dove la terra è di nessuno, ma il lavoro per coltivarla è di tutti, così come il suo raccolto».
Il fondatore del progetto è l’architetto Giacomo Salizzoni, esperto di didattica verde e attivista ambientale (in passato ha partecipato a diverse azioni di guerrilla gardening) che da circa un anno si prende cura dell’orto assieme a Il Bisonte, brand di alto artigianato fiorentino fondato nel 1970 da Wanny Di Filippo.
«Stavo cercando con Google Maps un luogo di cemento in cui realizzare una pennellata di verde con le piante. Mi colpì questa sorta di fazzoletto rosso: andai lì più volte ma era sempre chiuso. Quindi mi venne l’idea di allestire un “community garden” piuttosto che un orto sociale. In Italia, gli orti sociali di “sociale” hanno solo il nome. Sono luoghi spesso non sicuri. E al massimo ci trovi qualche anziano che teme che gli rubino le zucchine. Volevamo evolvere questo concetto. Il merito è anche del supporto de Il Bisonte: il modo in cui concia le pelli è millenario, perché estraggono il tannino dalle piante. Quindi la nostra unione si fonda su tanti aspetti in comune», ha spiegato Salizzoni durante il talk “Verde” al Festival di Internazionale a Ferrara.
Finora, l’intervento de Il Bisonte agli Orti Dipinti si è articolato in tre fasi: ottimizzazione dei consumi elettrici e di acqua; fornitura di casse per le piante e attrezzi agricoli (il magazzino era stato distrutto da una tempesta); gestione delle risorse grazie alla domotica. Quest’ultima, iniziata a giugno, ha previsto l’installazione di router, microprocessori e sensori per misurare l’umidità, la composizione chimica del terreno e fornire a ogni pianta tutto il necessario per crescere a qualsiasi condizione.
Gli Orti Dipinti, sottolinea Salizzoni, «si ispirano all’agroforestazione», che permette di far crescere sullo stesso terreno delle colture arboree ad alto fusto e a taglia bassa: «È un’alternativa alla monocultura. Quest’ultima non è sinergica e non porta collaborazione tra le varie piante. La natura si arrangia: le piante ne sanno più di noi, a volte bisogna lasciarle fare. Al centro del giardino, per fare un esempio, è cresciuto un ailanto, un albero nato in maniera spontanea».
La natura urbana deve osare, travalicare ed essere anche un po’ disordinata (come confermano i progetti di drenaggio urbano sostenibile), e il “community garden” fiorentino ne è la conferma: «Spesso il verde si confina all’interno di regole urbanistiche. Il verde, ad esempio, viene ghettizzato in un parco, ma da un parco all’altro c’è il deserto: dobbiamo connettere questi ecosistemi con prati e alberi, sfruttando ogni centimetro disponibile».
Il prossimo passo dell’intervento de Il Bisonte all’interno degli Orti Dipinti consisterà nella costruzione di una serra, che permetterà di svolgere attività didattiche anche d’inverno: «Abbiamo affiancato alla nostra struttura produttiva autenticamente artigianale le migliori tecnologie digitali: questa scelta ci permette sia di gestire al meglio i processi che di conservare la struttura artigianale e valorizzare il suo inestimabile patrimonio di saperi», spiega Luigi Ceccon, amministratore delegato de Il Bisonte.
Chiunque, dal lunedì al venerdì tra le 10 alle 13 (ma a volte anche nei fine settimana) può presentarsi agli Orti Dipinti a dare una mano in base alle proprie competenze: dal giardinaggio all’organizzazione di eventi, passando per la pulizia e la creazione di prodotti partendo dalle coltivazioni dei giardini: «È divertente notare come un luogo possa unire diverse comunità. Vediamo interagire persone che in strada non si guarderebbero neanche. Il verde può creare dei piccoli miracoli sociali», conclude Salizzoni.