Da alleati a nemici?Il paradosso degli alberi che “inquinano” e le distrazioni dell’arredamento urbano

Secondo alcuni scienziati, l’emissione di composti organici volatili biogenici (Bvoc) da parte delle piante possa essere una risposta al loro stato di stress, dovuto a temperature elevate ed eventi estremi. La gestione degli alberi nelle città non può basarsi solo sull’aspetto estetico e limitarsi alle varietà locali: dobbiamo valutare come ogni specie sia in grado di contribuire al nostro ambiente

Stefano Porta/LaPresse

In un mondo in cui gli eventi climatici estremi sono diventati sempre più frequenti e intensi, la trasformazione delle città è diventata una necessità impellente. Ondate di calore implacabili e piogge torrenziali devastanti sono diventate la norma, sfidando la resilienza delle comunità urbane. Si pensi alla tempesta che ha colpito Milano tra il 24 e il 25 luglio, con venti oltre i cento chilometri orari: le stime di Palazzo Marino parlano di danni per cinquanta milioni di euro, con circa cinquemila alberi abbattuti o danneggiati (circa cinquecento nei parchi cittadini). 

In questo scenario mutevole, la percezione tradizionale degli alberi urbani come elementi decorativi superficiali è obsoleta. Il tempo è maturo per riconoscere il ruolo cruciale di questi elementi come presidi sanitari e mitigatori di eventi estremi. Ad esempio, posizionando strategicamente gli alberi attorno agli edifici si può ridurre significativamente la necessità di aria condizionata. E ancora: secondo le stime della Fao, l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura che tanto si è spesa negli ultimi anni per mostrare i benefici delle foreste urbane, in climi più freddi le piante possono agire da barriere naturali contro il vento, portando a notevoli risparmi energetici nel riscaldamento. 

Un ulteriore vantaggio della diffusione degli spazi verdi urbani è la lotta all’effetto “isola di calore”. Questo fenomeno, che causa temperature urbane più elevate rispetto alle aree rurali, può essere mitigato dagli alberi attraverso la loro capacità di assorbire calore e rilasciare acqua tramite evapotraspirazione.

Ma l’evoluzione del concetto di albero urbano va al di là della sua funzione di mero arredo cittadino. Gli alberi, insieme all’intero spazio verde urbano, dovrebbero essere considerati componenti strutturali che guidano la pianificazione urbana. Questo implica una valutazione oculata delle necessità di alberi, delle specie più adatte e delle posizioni ottimali. Come dimostrato da un recente studio pubblicato su Nature, condotto a Milano e Bologna, alcune specie di alberi svolgono un ruolo più efficace nel migliorare la qualità dell’aria e mitigare i cambiamenti climatici. 

«Analizzando la composizione delle specie arboree, è emerso che alcune famiglie, come il Pioppo di Londra, sequestrano più carbonio. Specie come Cupressus arizonica e Cedrus libani, sebbene meno comuni, si sono dimostrate efficaci nel sequestrare il carbonio», sostengono gli autori.

Diverse tipologie di alberi rimuovono inquinanti in modo diverso. «Le conifere, grazie alla loro struttura fogliare, sono buone nel catturare il particolato atmosferico. Gli alberi a foglia larga, invece, si dimostrano efficaci nel ridurre ossidi di azoto, ozono e biossido di carbonio». Le mappe della copertura arborea presenti nello studio hanno rivelato che le zone verdi nel centro di Milano contribuiscono a una maggiore rimozione di CO2 e inquinanti. Dall’altra parte, le aree verdi suburbane di Bologna avrebbero un impatto significativo sulla riduzione di particolato atmosferico e CO2. 

Inoltre, gli alberi non solo aiutano a sequestrare carbonio e ridurre inquinanti, ma assorbono emissioni equivalenti a centinaia di veicoli l’anno. La loro importanza è evidente nelle condizioni meteorologiche, poiché le temperature elevate favoriscono la formazione di ozono, mentre le emissioni di inquinanti aumentano durante i mesi invernali.

Bisogna altresì considerare che alcune piante potrebbero non rappresentare una soluzione sempre vantaggiosa. «Gli alberi non sono sempre una cura miracolosa per migliorare la qualità dell’aria», spiega Donato Kofel, ingegnere ambientale dell’Epdl, importante centro di ricerca a Losanna. Nel corso del suo progetto di ricerca, Kofel ha condotto un’analisi nel cantone di Ginevra, mirando a valutare sia gli effetti positivi che quelli negativi degli alberi sulla qualità dell’aria. 

Cosa è emerso? Sebbene siano in grado di assorbire le particelle sottili presenti nell’atmosfera, alcune di queste specie emettono i cosiddetti composti organici volatili biogenici (Bvoc). Pur essendo sostanze di origine naturale, possono reagire con le emissioni prodotte dalle attività umane, come quelle provenienti dai gas di scarico dei veicoli. E tale interazione può portare alla formazione di ozono, una molecola dannosa sia per l’ambiente che per la salute dei polmoni umani.

A Ginevra, secondo le stime, gli alberi contribuiscono all’emissione di circa centotrenta tonnellate di Bvoc l’anno, corrispondenti al diciotto per cento dei composti volatili non naturali emessi dal traffico stradale. La quercia, ad esempio, che è una delle specie più comuni nelle strade e nei parchi, emette quantità considerevoli di Bvoc.

Il “paradosso” degli alberi che inquinano è un fenomeno ampiamente noto e documentato seppure solo recentemente. In un ormai famoso articolo di Nature, The man who smells forests, datato al 2009, lo scienziato e reporter Erik Vence spiegava che le piante emettono – seppur in modo molto diverso da specie a specie – composti organici volatili che reagendo nell’atmosfera con gli ossidi di azoto (NOx) vanno a formare ozono. Un interessante aspetto di questo fenomeno, ancora in fase di studio, è che alcuni scienziati ritengono che l’emissione di Bvoc da parte degli alberi possa essere una risposta al loro stato di stress o addirittura una forma di comunicazione tra gli stessi alberi. 

«Tra le ipotesi dominano quelle relative ad un fattore di protezione contro i parassiti, allo stress termico ed ossidativo e al potere deterrente contro gli erbivori». Ad esempio, in risposta a condizioni ambientali avverse o alle temperature elevate, gli alberi potrebbero aumentare la produzione di Bvoc. 

Chiaramente non sarebbe corretto “accusare” gli alberi di essere delle fonti di inquinamento, in quanto i benefici netti della loro presenza sulla qualità dell’aria e sulla riduzione delle emissione antropiche compensano largamente le possibili conseguenze dell’emissione di Bvoc sulla concentrazione di ozono. Comunque non tutte le specie di alberi emettono elevate quantità di questi composti organici volatili biogenici. 

Come ricorda il professore Francesco Ferrini, docente di Produzioni Agroalimentari e dell’Ambiente dell’università di Firenze, «è auspicabile che venga posta una certa attenzione nella scelta delle specie, considerando che, per esempio, alcune latifoglie del genere Eucalyptus (adesso classificate come Corymbia), Liquidambar, Robinia, Liriodendron, Populus, Quercus, Platanus, Salix e, essenzialmente, tutte le conifere, producono elevate quantità di isoprenoidi volatili. Mentre altre come Acer e Tilia hanno potenziali di emissione limitati in condizioni ottimali di salute». 

L’implementazione di queste nuove prospettive richiede competenza e un approccio tecnico. Città come Torino, Bolzano e Merano in Italia, insieme ad altre realtà europee, hanno dimostrato con successo l’efficacia di affidare la progettazione e la gestione degli alberi a esperti del settore. Questo approccio comporta pratiche quali potature attente nel tempo, trattamenti periodici mirati, valutazioni costanti della stabilità degli alberi e la pianificazione attenta degli spazi verdi. In questa direzione va anche il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che prevedeva in Italia un finanziamento di trecentotrenta milioni di euro per un piano di riforestazione in quattordici città metropolitane, ma che è stato recentemente ridimensionato. 

Come ha specificato lo stesso ministero dell’Ambiente, «si è ridotto il target di circa il trenta per cento per la difficoltà oggettiva delle città metropolitane di trovare le aree da riforestare». L’obiettivo iniziale era diviso in due fasi: piantare circa 1,6 milioni di alberi entro la fine del 2022 e i rimanenti cinque milioni entro la fine del 2023. Tuttavia, a marzo 2023 si è evidenziato che il primo obiettivo non era stato raggiunto. La Corte dei conti ha rilevato che alcune città non avevano ancora piantato gli alberi previsti, altre avevano avuto problemi di sopravvivenza delle piante e altre ancora avevano semplicemente piantato semi nei vivai.

Di fronte alle sfide nell’attuazione del piano originale, il governo Meloni ha proposto una rielaborazione del Pnrr. La revisione mira a modificare la descrizione dell’intervento e degli obiettivi relativi alla riforestazione nel testo della Council implementing decision (Cid), ossia la decisione dell’Unione europea che ha dato l’approvazione al Pnrr italiano. Tuttavia, al momento mancano dettagli precisi riguardo alle nuove misure di piantumazione alternativa o alle nuove scadenze proposte dal governo Meloni.

In aggiunta, la proposta di modifica del Pnrr prevede anche una riduzione di centodieci milioni di euro dai trecentotrenta milioni di finanziamento inizialmente stanziati per la riforestazione. Ma il ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, ha assicurato che le misure che verranno depennate dal Pnrr saranno comunque realizzate attraverso altre fonti di finanziamento. Alcune delle alternative contemplate potrebbero essere rappresentate da un fondo aggiuntivo al Pnrr finanziato da risorse nazionali o da altri fondi europei.

Piantare alberi rimane però uno dei cardini di molti programmi globali per migliorare l’ambiente, promossi da organizzazioni di spicco che si occupano di natura come, appunto la Fao. Oggi, in un mondo di cambiamenti su vari fronti (non solo quelli climatici), non possiamo scegliere le piante da mettere nei parchi cittadini solo basandoci sull’aspetto estetico o limitandoci alle specie locali. 

Dobbiamo valutare come ogni specie contribuirà al nostro ambiente, tenendo conto delle sue capacità. Ad esempio, i caratteristici pini marittimi di Napoli e Roma sono in pericolo, con un parassita che li sta uccidendo. Nei prossimi dieci anni potrebbero scomparire del tutto. Dobbiamo perciò affrontare questa sfida e accettare di dover optare per piante più resistenti al caldo e ai parassiti. 

Una nuova ricerca sulle foreste tropicali, riportata dalla Bbc, suggerisce che «intere chiome potrebbero morire» senza un’accelerazione nella lotta al riscaldamento globale di origine antropica. I risultati delle rilevazioni di temperatura delle foglie dipingono un quadro degli effetti che il cambiamento climatico potrebbe avere su tutte le foreste del globo. 

«Crediamo che gli alberi tropicali possano affrontare un aumento di temperatura fino a quattro gradi, e oltre quella soglia potremmo iniziare a osservare la mortalità indotta dalla temperatura, con enormi conseguenze per la foresta, la biodiversità e il carbonio. Il bosco non è un organismo statico, ma vivente, quindi si evolve e si adatta. E si sta adattando da più di cinquant’anni a un cambiamento climatico. Le piante che sono capaci di resistere molto di più a periodi di siccità, adesso si stanno sviluppando di più in aree dove prima non crescevano, perché queste stesse aree sono soggette per la prima volta a lunghi periodi di siccità». 

Come ha ricordato sul Manifesto Raoul Romano, ricercatore di Crea (principale Ente di ricerca italiano dedicato alle filiere agroalimentari) le foreste assorbono effettivamente le emissioni di anidride carbonica, ma lo fanno con tempi lunghissimi. «Se dovessimo piantare anche sessanta milioni di alberi gli effetti contro il cambiamento climatico li vedremo tra ottant’anni e non domani», dice l’esperto. 

Troppo spesso siamo portati a vedere la natura come un elemento statico, una sorta di arredamento urbano, dimenticando che è un vero essere vivente con le sue esigenze di spazio e luce e il suo ritmo di crescita. Le piante che piantiamo oggi avranno un impatto sulla qualità della vita dei nostri nipoti, non solo sulla nostra realtà attuale. Questo non significa però che dobbiamo smettere di agire per preservare le foreste che già abbiamo o scegliere di piantare nuovi alberi dove possibile. Anzi, come dice la più avveduta massima di Confucio: «Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa. Il secondo momento migliore è adesso».  

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