Un momento che in molti si aspettavano, anche se nessuno ha mai avuto il coraggio di metterlo per iscritto. Sarah Burton, la direttrice creativa di Alexander McQueen, ha annunciato il suo addio alla maison solo settantadue ore fa, con il classico comunicato di commiato pieno di ringraziamenti e stima verso Kering (il conglomerato che detiene la proprietà del brand). E così si sono riversati sui social i Nostradamus retroattivi, gli «eh ma si sapeva» finalmente esplicitati, dopo anni nei quali non era tanto possibile dirlo, e soprattutto scriverlo. Perché il lavoro ultraventennale di Burton da McQueen è stato encomiabile, ma destinato negli anni a diventare irrilevante, e non certo per dei suoi limiti creativi (d’altronde, era il braccio destro di Lee McQueen e la sua spalla fidata).
Bene ha fatto il Ceo Gianfilippo Testa a esprimere la sua «immensa gratitudine a Sarah per aver scritto un capitolo così importante nella storia della maison». Sarah Burton ha preso il timone di un brand che ha fatto la storia della moda nei primi anni duemila, nel momento della tragica scomparsa del suo fondatore. Pur disponendo di tutte le capacità tecniche per succedergli – anzi, essendo l’unica che poteva farlo con diritto, avendo vissuto al suo fianco nell’ufficio stile per diversi anni – semplicemente, non era Lee Alexander McQueen, il visionario inglese che ha messo la moda alla berlina, obbligandola a confrontarsi con le sue perversioni e le sue ossessioni.
Le riflessioni di McQueen hanno trasceso il reame inaccessibile degli addetti ai lavori e sono esondate nella vita reale – universo al quale, figlio di un tassista e di una maestra, è sempre orgogliosamente appartenuto – perché usavano gli abiti per parlare di tutto il resto. La vita e la morte, la violenza sulle donne e la sovrapproduzione, solo per citarne alcuni argomenti da lui affrontati. McQueen ha anticipato di vent’anni abbondanti le tribolazioni attuali sul rapporto tra l’uomo e la macchina, tra intelligenza emotiva e intelligenza artificiale, non fornendo mai risposte rassicuranti, ma solo interrogativi che spingevano a un percorso psicologico per nulla rincuorante sullo zeitgeist.
Non un brand, quanto un manifesto, per quanto questa parola, a forza di essere abusata, ha perso la sua originale forza eversiva. Un compito, quello di camminare nelle scarpe di questo gigante, che sarebbe stato troppo gravoso per chiunque. E lo è stato infatti anche per Burton, che ha avuto un unico difetto: quello di non essere McQueen. Priva del vissuto costellato dal dolore e dalle dipendenze, priva di quello sguardo acuto e irreplicabile, Burton ha fatto quello che ha potuto con i mezzi a sua disposizione: da pioniere di una contro-rivoluzione alle porte dei palazzi del potere, il brand si è così tramutato in una qualunque testimone della sposa invitata a un matrimonio hipster dalle parti di Knightsbridge, perfettamente a suo agio nella società, e nei suoi metri di organza sapientemente avvolti intorno al corpo (e, in effetti, è stata Burton a realizzare l’abito con il quale Kate Middleton si è consegnata come moglie al principe William nel 2011).
Ad oggi, Kering non ha annunciato il successore di Burton e non è dato sapere se ce ne sia già uno. Burton ha salutato il brand con parole che sono sembrate sincere e persino liberatorie: «Sono così orgogliosa di tutto ciò che ho fatto e del mio incredibile team da Alexander McQueen – ha detto la designer -. Sono la mia famiglia, e questa è stata la mia casa per ventisei anni. Voglio ringraziare François-Henri Pinault per aver creduto in me e avermi offerto questa incredibile opportunità. E soprattutto voglio ringraziare Lee Alexander McQueen. Mi ha insegnato così tanto e gli sono eternamente grata. Sto guardando al futuro e al mio prossimo capitolo, e porterò sempre questo prezioso tempo con me».
Negli stessi giorni dell’annuncio di questo addio, durante la New York Fashion Week è andato in scena il debutto di Peter Do alla guida di Helmut Lang. Il brand è stato venduto dal suo fondatore nel 2005 originariamente a Prada e oggi è di proprietà di Fast Retailing, holding giapponese che ha nel suo portfolio Theory, J Brand, Comptoir des Cotonniers, ma soprattutto Uniqlo, che opera nel reparto fast fashion nonostante la patina spessa di minimalismo zen.
Anche nel caso di Do, il compito era superiore alle sue capacità – e a quelle di chiunque altro fosse stato scelto al suo posto. L’alunno alla scuola di Phoebe Philo, promosso alla direzione creativa di Lang dopo alcune stagioni promettenti con il suo brand, ha mostrato i limiti di una mentalità che esclude dal raggio d’azione di un minimalismo asfittico qualunque pensiero sul Bdsm, sulle controculture dei club sotterranei di Vienna nei quali ci si scambia con la stessa scioltezza opinioni sull’esistenzialismo di Kierkegaard e fluidi corporei. Il risultato è stato un repulisti borghese di Lang, una damnatio memoriae di ciò che non è possibile incapsulare in un prodotto semplice, comprensibile, già ampiamente digerito dai consumatori, vendibile.
Do è al suo debutto, e avrà tempo per aggiustare la rotta, immergersi nel magma primordiale al quale si abbeverava Lang e trovare dei punti in comune, dei sapori che ha senso per la sua estetica esplorare, o anche delle posizioni che vuole sconfessare con decisione, in rottura con il fondatore. Non è però scontato che lo farà, anche perché l’interesse di Fast Retailing non sembra tanto quello di far suonare una nuova melodia nello spartito della storia del costume, quanto quello di far risuonare a festa i registratori di cassa, una priorità tutto sommato ragionevole.
La complessità di questi due brand, fortemente legati all’impronta dei loro fondatori, in un mondo ideale avrebbe portato all’abbandono di ogni progetto, impossibile da realizzare in maniera autorevole senza la presenza fisica di chi li ha creati, ma il mondo dei conglomerati finanziari che gestisce la moda opera secondo dinamiche capitaliste di profitto assai diverse. Va specificato che le situazioni sono comunque dotate di tratti che le differenziano: Kering ha acquistato McQueen nel 2000, quando il conglomerato si chiamava ancora gruppo Gucci e Alexander McQueen era vivo.
Nessuno avrebbe potuto prevedere ciò che sarebbe successo dopo. Helmut Lang è, invece, ancora vivo e vegeto, ma, da creativo in purezza, privo di briglie o confini nei quali operare, negli anni ha semplicemente perso interesse nella moda, preferendo dedicarsi ad altre forme di arte visiva. Fast Retailing lo ha acquistato già privo del suo creativo e con il progetto preciso di farlo fruttare, quando fosse arrivato il designer giusto. Probabilmente, però, gli unici designer giusti per Alexander McQueen ed Helmut Lang sono stati i fondatori, e qualunque altro “revamp” ha la valenza di un’operazione tanatoestetica volta a rinfrescare un corpus stilistico la cui anima è definitivamente perduta.
Questi designer che hanno così radicalmente cambiato la storia del costume, intercettando un sentire contemporaneamente popolare e di nicchia, hanno operato rispettivamente fino al 2005 (Lang) e al 2010 (McQueen): la traccia che hanno lasciato è ancora troppo fresca perché si sia in grado di prendere le giuste distanze emotive e intellettuali dal loro percorso. A differenza di quanto accaduto però al debutto della direzione creativa di Burton – avvenuto a qualche mese di distanza dal suicidio di McQueen e quindi accolto con una comprensibile emotività che offuscava la lucidità -, quello di Do è stato salutato dalla stampa americana in maniera tiepida, con l’eccezione dell’editorialista del The Cut, Cathy Horyn. La storica penna del New York Times, nel suo stile lapidario, ha scritto: «Do dovrà trovare il suo punto di contatto con Lang e poi esprimere quello spirito in una maniera contemporanea, senza rispetto per la sua eredità. Altrimenti tanto vale comprare da Uniqlo».
L’evento più atteso dell’interminabile Fashion Week americana, ricca di eventi e povera di senso, non è stato il successo che molti si aspettavano e speravano, e Horyn ne ha spiegato il perché in poche battute. Al netto dell’irrilevanza delle recensioni della stampa di settore – che siano belle o brutte, prezzolate o oneste, conta poco, il pubblico oggi fruisce la moda attraverso altri canali e social media, e raramente il pensiero di una penna seppur illuminata cambia le sorti di una collezione -, le sue posizioni critiche espresse sul The Cut hanno scatenato le reazioni del pubblico del web.
Il pezzo più recente, “Fashion world has a talent problem”, nel quale racconta lo status quo attuale della moda – profondamente diverso dal piccolo mondo antico di maison insulari e a gestione famigliare degli anni Novanta – ha contribuito ad accendere un dibattito su cosa è diventata la moda oggi (spoiler: alle maison interessa relativamente il talento dei designer, c’è maggiore necessità di uomini e donne abili nel ragionare su un prodotto, che abbiano capacità di storytelling e un approccio disinibito al marketing).
È forse questo il compito ultimo di chi fa informazione culturale: fornire ai lettori interrogativi, stimolare riflessioni e porre domande inaspettate, più che scontate assoluzioni o condanne. Un esercizio al quale, a leggere i commenti positivi sotto le recensioni di Horyn sul The Cut, non siamo abituati, ma di cui abbiamo disperatamente bisogno. Così potremo evitare il fenomeno dei Nostradamus retroattivi, ed esercitare l’arte della critica giornalistica. Per quello che vale.