«Il prossimo anno a Bakhchysarai» è il modo di concludere, con una variante ucraina del tipico saluto ebraico del seder di Pesach, una cena di tradizionale cucina tatara di Crimea a Kyjiv.
Bakhchysarai è la storica ex capitale di Crimea venerata dalla popolazione autoctona dei tatari, e l’invocazione «il prossimo anno a Bakhchysarai» è un modo per mostrare fiducia che il prossimo anno si potrà festeggiare la fine della guerra di aggressione russa proprio nella regione occupata illegalmente dal Cremlino nove anni fa.
Una discussione intellettuale a Kyjiv sulla guerra e sulla pace comincia sempre con l’attualità, magari – come è successo ieri – ricordando i diciassette morti causati nel pomeriggio da un mitragliamento russo in un mercato a Kostyantynivka, nella regione di Donetsk, oppure scambiandosi impressioni sulle due ore trascorse la notte precedente nei rifugi antiaerei o semplicemente a casa con i tappi alle orecchie per continuare a simulare una vita normale. Ma poi arriva inevitabilmente la Crimea, la regione simbolo dell’imperialismo russo, dei crimini contro l’umanità e dell’indifferenza dell’Occidente.
La Crimea è la chiave di volta della guerra russa alla democrazia, alla cultura e alla libertà ucraina, ma è anche il tabù occidentale che anche gli europei simpatetici alla causa ucraina pensano si possa sacrificare in nome della pace.
In mezzo c’è un non piccolo problema umanitario e giuridico, quello dei tatari di Crimea, la popolazione autoctona che a partire dal 1991, anno dell’indipendenza ucraina, è tornata in patria prendendo la cittadinanza ucraina dopo che i russi avevano provato a cancellarla con una ferocia addirittura superiore a quella usata contro gli ucraini.
Prima della prima invasione russa della Crimea, nel 1783, i tatari rappresentavano il novanta per cento della popolazione della Crimea, poi sia Caterina di Russia sia Stalin decisero la loro rimozione forzata dalla loro terra e la loro conseguente ricollocazione forzosa in Asia centrale, prevalentemente in Uzbekistan.
Stalin, inoltre, deportò centinaia di migliaia di russi in Crimea per farla diventare artificialmente russa. Per effetto di questa politica imperialista e genocida, i tatari di Crimea scesero a quota 29 per cento della popolazione prima della rivoluzione d’ottobre del 1917, per precipitare fino allo zero per cento in seguito all’esecuzione completa delle politiche staliniane.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, una buona parte dei tatari sono tornati in Crimea e si sono integrati nella Repubblica ucraina, tanto che oggi l’etnia del nuovo ministro della Difesa è tatara di Crimea (un altro segnale che la Crimea resta centrale nell’agenda politica e militare di Volodymyr Zelensky nonostante i giornali italiani sostengano il contrario).
Con l’invasione russa del 2014, e con la successiva annessione illegale della Crimea, Vladimir Putin ha ripreso in mano il progetto zarista e staliniano di oppressione e di pulizia etnica dei tatari ed è tornato a perseguitare la popolazione autoctona nel frattempo tornata a essere circa il 20 per cento, e poi a ricollocare in Crimea centinaia di migliaia di russi – le cifre, in questo caso, variano tra le cinquecento e le ottocentomila persone – con un impatto etnico devastante considerando una popolazione complessiva della Crimea, prima del 2014, di poco più di due milioni e trecentomila abitanti e la successiva fuga verso la Turchia e vedo l’Ucraina continentale di circa duecentomila tatari tra il 2014 e il 2023.
Putin ha affinato il piano di Stalin con il ponte sullo stretto di Kerch, costruito per collegare artificialmente alla Russia una penisola geograficamente e politicamente attaccata all’Ucraina.
La pulizia etnica si è intensificata dopo la guerra su larga scala cominciata il 24 febbraio del 2022, al punto che la maggior parte dei prigionieri politici in Crimea oggi è composta dai tatari, i quali a volte sono colpevoli soltanto di essersi dipinti le unghie con i colori giallo e blu della bandiera ucraina oppure di aver indossato il tradizionale vestito ricamato, e per questo vengono condannati a diciassette anni di galera sulla base di un articolo del codice penale russo che punisce chiunque getti discredito sull’esercito di Mosca.
La riconquista della Crimea è una delle questioni centrali al Ministero della Difesa e degli Esteri, ma anche al quartier generale del presidente Zelensky, il quale ha creato un team di giuristi, militanti dei diritti umani, avvocati e diplomatici, chiamato Crimea Platform, per prepararsi al momento in cui avverrà la liberazione della penisola occupata illegalmente.
«Non commento le scelte militari, non posso dire quale avanzamento sul campo di battaglia potrebbe convincere i russi ad abbandonare la Crimea», dice Maria Tomak, il capo di Crimea Platform, la piattaforma di consultazione e di coordinamento internazionale lanciata dall’Ucraina con l’obiettivo di far finire l’occupazione della Crimea e di farla tornare pacificamente alla terraferma cui è legata naturalmente. «La cosa certa – aggiunge – è che l’Ucraina non abbandonerà mai i suoi concittadini che vivono nella penisola occupata illegalmente e in particolare la popolazione autoctona dei tatari di Crimea da sempre oppressa dai russi».
La sede di Crimea Platform, e della Missione del presidente dell’Ucraina nella Repubblica autonoma di Crimea, si trova a un passo dalla Verkhovna Rada, dal Parlamento ucraino, nella zona fortificata di Kyjiv che abbiamo visto molte volte in televisione accogliere i capi di Stato occidentali in visita di rito nella capitale.
Si trova a pochi minuti a piedi dal mausoleo dell’Holodomor, costruito dall’Ucraina indipendente per ricordare il male assoluto compiuto dalla pianificazione sovietica della carestia dei contadini ucraini negli anni Trenta, ma anche negli anni Venti e Quaranta del secolo scorso. Accanto c’è il monumento sovietico alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale che ricorda il sacrificio ucraino alla lotta contro il nazifascismo.
La zona governativa si trova nel quartiere di Pechersk, nella parte alta della città, quella più elegante e monumentale. Vi si accede dopo aver superato posti di blocco, dissuasori di cemento armato e altre forme di difesa da barricata.
Superati i primi controlli, una volta dentro è vietato fotografare i palazzi presidenziali. La cautela è comprensibile nonostante per arrivarci si attraversi con serenità una città aperta e libera.
Il fatto che il dossier Crimea sia gestito a un passo dai luoghi di maggior potere è un’ulteriore risposta a quelli che fantasticano di una soluzione diplomatica che possa lasciare la Crimea alla Federazione russa.
La rappresentante di Zelensky per la Crimea, Tamila Tasheva, conferma la policy ufficiale del governo. La stessa che Olexander Scherba, ambasciatore responsabile della comunicazione, ribadisce essere quella al Ministero degli Esteri: «La vittoria deve essere totale».
Non ci sono dubbi né tentennamenti sulla vittoria completa della guerra tra i funzionari di governo, ma ovviamente attenersi al messaggio ufficiale fa parte del loro lavoro.
La cosa che colpisce è che il messaggio della vittoria sia lo stesso che circola tra gli intellettuali che brindano con «il prossimo anno a Bakhchysarai», e anche tra i cittadini comuni che ricordano agli occidentali come il nazionalismo dei paesi colonizzati dal Cremlino sia un sentimento antitotalitario, da dissidenti, un tentativo di sincerità e di amore che ai tempi dell’Unione sovietica si contrappone alla menzogna comunista dell’internazionalismo e della fraterna amicizia tra i popoli.
I responsabili dei musei, delle gallerie di arte contemporanea, delle cineteche nazionali, della Fiera del Libro dell’Arsenale raccontano a ciglio asciutto e con volontà ferma le tradizionali politiche russe per cancellare la cultura e l’identità dei popoli colonizzati, in modo da non lasciare traccia che queste storie, queste culture, queste identità diverse da quelle ufficiali dell’impero siano mai esistite. Per questo pianificano al dettaglio le strategie da eseguire «dopo la vittoria», che è la frase più ricorrente a Kyjiv, ormai quasi un intercalare, perché la vittoria è solo una questione di quando arriverà, non di se.
In una conversazione con Volodymyr Yermolenko al Pen Ukraine, lo storico e filosofo Timothy Snyder, una specie di guru della causa ucraina grazie ai suoi formidabili libri, ha elaborato la questione della vittoria e della sconfitta, ricordando che le potenze europee sono diventate migliori soltanto perché hanno perso malamente le guerre coloniali, tanto che solo dopo la sonora sconfitta hanno deciso di dedicarsi ad altro e di costruire l’Europa unita.
Per gli stessi motivi, la cosa migliore che si possa augurare ai cittadini russi, anche a quelli anti Putin, è che perdano malamente la guerra, ha aggiunto Snyder. Solo perdendo militarmente e politicamente e intellettualmente, potrà nascere qualcosa di nuovo.
Gli europei – ha concluso Snyder – queste cose non le dicono, e anzi cercano sempre soluzioni acrobatiche per arrivare alla pace inaccettabili per le vittime aggredite, perché non si ricordano mai quanto sia stato utile per loro perdere le guerre coloniali e mondiali. Non bisogna inseguire la pace, insomma, ma la sconfitta della Russia. «Il prossimo anno a Bakhchysarai».