L’ombra detestabileIl potere della parola e l’inopportuna arte di disturbare con la voce fuori campo

In “Vite minuscole”, Pierre Michon racconta dieci storie di personaggi votati all’oblio. In questo racconto, il narratore ubriaco disturba un giovane dongiovanni correggendo ogni frase del suo spettacolo con commenti cinici e dispregiativi

Montmartre, Paris, France
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Eravamo all’inizio dell’estate, nei primi anni Settanta, a Clermont-Ferrand. La mia breve permanenza nel mondo del teatro si stava concludendo; la compagnia si era sciolta, alcuni erano stati scritturati altrove, altri, come me, aspettavano da chissà quale cambio di vento un balzo a piè pari nel proprio destino. […]

Uscii ubriaco nella notte; Marianne era preoccupata, l’occhio indifferente delle prostitute ci seguì fino in fondo alla via buia; la luce dei viali del centro mi irritò. Vagabondammo da un bar all’altro, mentre la stizza cresceva in me con l’impedimento dell’eloquio, sempre più vischioso, perduto nell’ombra, sonoro; mettevo me stesso alla gogna: se nemmeno la mia lingua riusciva più a padroneggiare le parole, come avrei mai potuto scriverle?

Via, meglio il puro abbrutimento, gin fizz e birra, meglio tornare sui «sentieri di qui, chino sotto il mio vizio»: se bisognava morire senza averne scritto, che fosse almeno nella più ottusa esuberanza, nella caricatura delle insulse funzioni vitali, nell’ebbrezza. Marianne mi ascoltava costernata, e il suo sguardo immenso mi serrava la bocca.

Al bar La Lune, i neon di un rosa da biancheria intima che facevano bruscamente risaltare i volti con colori piatti da maschera mortuaria, le sedie orrende e i posacenere straripanti portarono all’estremo la mia rabbia; stavo scappando; ero, malferma, quella sedia di formica e, vivo, quel cadavere, quando aprii la porta della Brasserie de Strasbourg; avevo ancora il Gilles de Rais.

All’interno, passando con smorfie da giullare da un tavolo di sghignazzanti parrucchiere a un altro di compiacenti operaie in posa da odalisca, uno spaccone dava spettacolo; era giovane, aitante, e sfoggiava in cima al completo uno sguardo vanesio da sciupafemmine; la sua boria era innocua.

I frizzi laboriosi da dongiovanni di bassa lega, il favore del pubblico femminile, che con quei visi truccati e quei risolini sfrenati mi eccitava e irritava insieme, la concione che teneva, ostentatamente maliziosa e troppo malcelata sotto una grossolana astuzia perché non ne venisse smascherata l’opprimente miseria, tutto questo deviò il corso della mia collera. Sorrisi; l’ira si rallegrava di poter finalmente distogliersi da me per concentrarsi, meno violenta e come impietosita, su un altro bersaglio: presi la parola.

Ero seduto in fondo alla sala, in una lieve penombra; il bellimbusto si esibiva vicino al bar, in piena luce; parlavamo entrambi, uno dopo l’altro, a voce molto alta e teatrale, in una complicità astiosa. A denti stretti e facendo finta di non sentirmi, lui continuava imperterrito il suo numero; ma lo continuava senza rete, e ormai parlava solo per porgere la gola alla mia censura: non c’era infatti suo strafalcione che io, impettito come un sorvegliante di collegio, non correggessi con qualche esclamazione; non una delle sue frasi in sospeso che io non completassi in senso grevemente cinico; non una delle sue allusioni di cui non rendessi espliciti gli an nessi – l’appetito per la carne grassa delle parrucchiere – e i connessi – l’auspicato possesso di quella carne.

Probabilmente ero ubriaco, e le mie parole avevano assunto il tono adeguato, pastosamente intempestivo e pieno di sé; eppure colpivo nel segno; sapevo benissimo in che modo ferire il chiacchierone e il suo desiderio poiché quei rudimentali appetiti erano anche i miei, e mio quell’abuso del linguaggio sviato da se stesso e avvinto dalla carne come dal sole il tropismo dei fiori, abuso che forse è il suo uso vero e proprio.

Gli uomini si assomigliano un po’ tutti. Come me, quello avrebbe voluto piacere grazie al dono delle parole e, ispirato dal vermiglio di una bocca e dal bianco di una spalla messi in risalto dai neon, scriveva una maldestra lettera d’amore, improvvisava il madrigale con cui si turba la donna indifferente; e forse la turbava, o l’avrebbe turbata, se io non avessi guastato quell’innocente festa, se non fossi incongruamente entrato in scena con la mia puntigliosa ubriachezza e il mio libro chic, e non avessi recitato una parte piena di acredine, arroganza, dispotico furore; aveva trovato in me colui che smonta qualunque discorso fingendo di sovrastarlo, che confuta l’opera innalzando capziosamente bocca e mente al di sopra della bocca e della mente che per l’opera faticano: voglio dire il lettore esigente.

E, come a volte accade, proprio a questo lettore ormai si dedicava, inanemente; per quell’ombra detestabile lasciava scappare le sue belle prede; era come il re di una tragedia classica che, a causa di un errore nel copione, avesse sentito il corifeo raccontare su quali odiose ceneri, su quale trono d’argilla era fondata la sua precaria sovranità – e intanto anche le suddite udivano l’inopportuna voce fuori campo.

Da “Vite minuscole” di Pierre Michon, Adelphi, 204 pagine, 12 euro.