Eravamo all’inizio dell’estate, nei primi anni Settanta, a Clermont-Ferrand. La mia breve permanenza nel mondo del teatro si stava concludendo; la compagnia si era sciolta, alcuni erano stati scritturati altrove, altri, come me, aspettavano da chissà quale cambio di vento un balzo a piè pari nel proprio destino. […]
Uscii ubriaco nella notte; Marianne era preoccupata, l’occhio indifferente delle prostitute ci seguì fino in fondo alla via buia; la luce dei viali del centro mi irritò. Vagabondammo da un bar all’altro, mentre la stizza cresceva in me con l’impedimento dell’eloquio, sempre più vischioso, perduto nell’ombra, sonoro; mettevo me stesso alla gogna: se nemmeno la mia lingua riusciva più a padroneggiare le parole, come avrei mai potuto scriverle?
Via, meglio il puro abbrutimento, gin fizz e birra, meglio tornare sui «sentieri di qui, chino sotto il mio vizio»: se bisognava morire senza averne scritto, che fosse almeno nella più ottusa esuberanza, nella caricatura delle insulse funzioni vitali, nell’ebbrezza. Marianne mi ascoltava costernata, e il suo sguardo immenso mi serrava la bocca.
Al bar La Lune, i neon di un rosa da biancheria intima che facevano bruscamente risaltare i volti con colori piatti da maschera mortuaria, le sedie orrende e i posacenere straripanti portarono all’estremo la mia rabbia; stavo scappando; ero, malferma, quella sedia di formica e, vivo, quel cadavere, quando aprii la porta della Brasserie de Strasbourg; avevo ancora il Gilles de Rais.
All’interno, passando con smorfie da giullare da un tavolo di sghignazzanti parrucchiere a un altro di compiacenti operaie in posa da odalisca, uno spaccone dava spettacolo; era giovane, aitante, e sfoggiava in cima al completo uno sguardo vanesio da sciupafemmine; la sua boria era innocua.
I frizzi laboriosi da dongiovanni di bassa lega, il favore del pubblico femminile, che con quei visi truccati e quei risolini sfrenati mi eccitava e irritava insieme, la concione che teneva, ostentatamente maliziosa e troppo malcelata sotto una grossolana astuzia perché non ne venisse smascherata l’opprimente miseria, tutto questo deviò il corso della mia collera. Sorrisi; l’ira si rallegrava di poter finalmente distogliersi da me per concentrarsi, meno violenta e come impietosita, su un altro bersaglio: presi la parola.
Ero seduto in fondo alla sala, in una lieve penombra; il bellimbusto si esibiva vicino al bar, in piena luce; parlavamo entrambi, uno dopo l’altro, a voce molto alta e teatrale, in una complicità astiosa. A denti stretti e facendo finta di non sentirmi, lui continuava imperterrito il suo numero; ma lo continuava senza rete, e ormai parlava solo per porgere la gola alla mia censura: non c’era infatti suo strafalcione che io, impettito come un sorvegliante di collegio, non correggessi con qualche esclamazione; non una delle sue frasi in sospeso che io non completassi in senso grevemente cinico; non una delle sue allusioni di cui non rendessi espliciti gli an nessi – l’appetito per la carne grassa delle parrucchiere – e i connessi – l’auspicato possesso di quella carne.
Probabilmente ero ubriaco, e le mie parole avevano assunto il tono adeguato, pastosamente intempestivo e pieno di sé; eppure colpivo nel segno; sapevo benissimo in che modo ferire il chiacchierone e il suo desiderio poiché quei rudimentali appetiti erano anche i miei, e mio quell’abuso del linguaggio sviato da se stesso e avvinto dalla carne come dal sole il tropismo dei fiori, abuso che forse è il suo uso vero e proprio.
Gli uomini si assomigliano un po’ tutti. Come me, quello avrebbe voluto piacere grazie al dono delle parole e, ispirato dal vermiglio di una bocca e dal bianco di una spalla messi in risalto dai neon, scriveva una maldestra lettera d’amore, improvvisava il madrigale con cui si turba la donna indifferente; e forse la turbava, o l’avrebbe turbata, se io non avessi guastato quell’innocente festa, se non fossi incongruamente entrato in scena con la mia puntigliosa ubriachezza e il mio libro chic, e non avessi recitato una parte piena di acredine, arroganza, dispotico furore; aveva trovato in me colui che smonta qualunque discorso fingendo di sovrastarlo, che confuta l’opera innalzando capziosamente bocca e mente al di sopra della bocca e della mente che per l’opera faticano: voglio dire il lettore esigente.
E, come a volte accade, proprio a questo lettore ormai si dedicava, inanemente; per quell’ombra detestabile lasciava scappare le sue belle prede; era come il re di una tragedia classica che, a causa di un errore nel copione, avesse sentito il corifeo raccontare su quali odiose ceneri, su quale trono d’argilla era fondata la sua precaria sovranità – e intanto anche le suddite udivano l’inopportuna voce fuori campo.
Da “Vite minuscole” di Pierre Michon, Adelphi, 204 pagine, 12 euro.