«Per oggi ci sono io, poi la settimana prossima vediamo». Sono le 15 e 40 d’un venerdì che tutti abbiamo passato a cercare di farci dire cosa intendesse fare Mediaset del posto di lavoro di Bellicapelli, nessuno riuscendoci (come fanno a rivelare una decisione che ancora non hanno preso?), qualcuno inventando e tirando a indovinare e vedi mai che ci prenda e poi tra una settimana possa dire «io sapevo da prima».
Sono le 15 e 40, “Diario del giorno” è iniziato da pochi minuti, Bellicapelli Giambruno non è in studio, al suo posto c’è un tizio irrilevante ai fini del romanzone sentimentale cui stiamo assistendo da tre giorni. Ci sono degli ospiti collegati.
Sono le 15 e 40, quando il supplente di bellicapellitudine in studio fa al direttore del Foglio, collegato in uno degli schermi, una domanda su Al Sisi, e l’eroico Claudio Cerasa, invece di rispondere, controdomanda.
Dicendo che sì, tutto molto interessante, ma intanto deve fare una domanda lui: come mai Giambruno non c’è, tornerà, lo licenziano, lo demansionano, cosa? Il supplente di bellicapellitudine ha l’aria imbarazzata del bambino che non ha mai parlato coi cuginetti di quella scena che ha fatto lo zio ubriaco al pranzo di Natale, hanno fatto tutti finta di niente e ora arriva Cerasa e ci costringe a prenderne atto.
La settimana prossima vediamo, ma intanto c’è da raccontare questo venerdì, terzo giorno non di resurrezione ma di giambruneide, cominciato alle otto e trentacinque del mattino, quando Giorgia Meloni decide di farci vedere come molla un’italiana. Senza vergini e draghi e altre scarsissime immedesimabilità veronicalariste: Meloni è lo specchio perfetto dell’elettorato, fin dal lessico.
Mentre una sinistra destinata a perdere le prossime quattrocentoventi elezioni corre sui social a spiegare con grandissimo senso delle priorità che la chiusa meloniana «per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua» dimostra scarsa conoscenza delle leggi fisiche e del principio di erosione, quella frase lì è già tatuaggio ordinato in periferia e slogan ripetuto nei gruppi di mamme su Facebook.
Due anni e mezzo fa, quando non era ancora presidente del Consiglio ma la sua qualità di Chiara Ferragni della politica era evidente a chiunque volesse incomodarsi a guardare, Giorgia Meloni pubblicò la sua autobiografia.
C’erano dentro tutti i colori necessari ad avere successo nel nostro tempo, tutti i colori che ti rendono popolare presso il pubblico di donne che si tatuano la data di nascita dei figli su una caviglia, che dicono serie «siamo mamme, possiamo tutto», che si sentono eroiche perché hanno montato da sole la libreria Ikea e schienadrittiste perché una volta non l’hanno data a uno con cui si sarebbero sistemate. C’erano tutti i sono-forte-ma-anche-fragile dei drammi a lieto fine da filmone lacrimevole.
«Andrea è intelligente e sicuro di sé, è molto bravo nel suo lavoro, e questo lo rende uno dei pochissimi uomini al mondo capaci di non soffrire se hanno accanto una donna affermata. Non ha mai avuto alcuna soggezione per il mio ruolo di “capo”, forse anche perché conosce quella vulnerabilità che sono in grado di mostrare solo alle persone che amo».
Quando “Io sono Giorgia” uscì, nessuno di noi aveva mai visto Giambruno, stipendiato Mediaset senza particolare gloria professionale. Se Giorgia Meloni non avesse preso nell’ultimo anno e mezzo tutti gli ascensori sociali che avevamo sostenuto non funzionassero in questo paese fatto a scale, avremmo potuto continuare a crederle.
Avremmo potuto pensare che il padre di sua figlia fosse intelligente, sicuro di sé, molto bravo nel suo lavoro, e per nulla frustrato dal maggior successo della donna dall’esistenza della quale la di lui carriera è stata (brevemente) miracolata. E invece è andata così: che Giambruno ha avuto un’opportunità, e abbiamo visto tutti cos’è successo poi.
Il consumarsi delle questioni in pubblico è un elemento importante in questa vicenda. Se Giambruno non avesse ambìto a un ruolo pubblico, smaniando per stare in scena invece che fuori scena, nessuna delle polemiche che l’hanno riguardato negli ultimi mesi sarebbe esistita, e Giorgia Meloni magari avrebbe potuto continuare a pazientare, come chiunque di noi abbia un cretino a casa ma non il ricarico di venirne umiliata in pubblico.
Oppure. Se le vite private non fossero ormai consumate in pubblico tutte e sempre e comunque, Giorgia Meloni avrebbe potuto lasciare il padre di sua figlia con un biglietto, un WhatsApp, una piazzata, una serratura cambiata: uno qualunque dei modi in cui ci si lasciava quando il mondo non costituiva un continuo e gigantesco sondaggio d’opinione a mezzo cuoricini.
Dieci ore prima che Giorgia Meloni – madre, quarantaseienne, bionda, presidente del Consiglio – scrivesse sui social «La mia relazione con Andrea Giambruno, durata quasi dieci anni, finisce qui», Lupita Nyong’o – premio Oscar, quarantenne, nera, attrice – scriveva su Instagram che la sua relazione (con un innominato) era finita giacché lei era stata tradita.
Entrambe le signore sono abbastanza adulte da ricordare gli anni in cui, se eravamo cornute, al massimo lo dicevamo alle amiche. Ma entrambe vivono in questi tempi qui, in cui il pubblico che infila la scheda elettorale nell’urna e quello che compra il biglietto del cinema vogliono la stessa cosa: sapere che stanno dando la loro fiducia a qualcuno cui somigliano.
Che tu sia cornuta come me, vessata come me, tra le difficoltà d’essere donna in carriera ma anche madre come me, con la ritenzione idrica come me, che tu sia il mio specchio vale più d’una finanziaria che metta i soldi nei posti giusti, più d’una politica estera così o cosà, più del maggioritario, del proporzionale, e persino delle liste d’attesa per una tac.
Il catalogo delle risposte imbecilli da sinistra alla vicenda Meloni/Giambruno è sterminato, ma s’individuano due filoni preponderanti.
Quelli che «Lo vedi Giorgia che allora le famiglie tradizionali finiscono male e tu che non vuoi riconoscere i diritti queer ora sarai pentita» (invece di rivendicare che pure tra busoni ci si lasci con pubblici rinfacci; invece di dire: vieni, Giorgia, parliamo di come vendicarci dell’ex ché noialtri invertiti siam specialisti).
E quelli che le cafonate di Bellicapelli nei filmati mandati da “Striscia” non erano solo cafonate: erano vessazioni verso povere colleghe vittimizzate in quanto donne, e Giambruno è un esponente del patriarcato dominante. Giambruno, che se Mediaset non gli conserva uno strapuntino alle previsioni del tempo dovrà farsi dare gli alimenti dalla ex, che però saggiamente non se l’è sposato e quindi non lo vedo benissimo, non dico come patriarca ma anche solo come titolare di conto corrente non a doppia firma.
Sulla sinistra non si può infierire, e in questo Giorgia Meloni è stata provvidenziale. Monopolizzando col suo addio alla coppia la giornata, ci distrae dall’accanirci su Beppe Sala, che fa non ho capito bene se Batman o un altro personaggio in un video per i Club Dogo (chiunque essi siano), con una recitazione di squisita scuola canile municipale.
Ma ora basta parlare di disastri, torniamo a Giambruno. Quella di Bellicapelli è, in fondo, una edificante storia che ci insegna il rilancio d’un marchio, l’infondatezza di alcune leggende circa la meritocrazia, e lo straordinario talento che ci vuole per emergere come la più politica delle influencer in un decennio in cui tutte le influencer ambiscono a essere politiche.
Ieri pomeriggio, il pubblico alfabetizzato ha fatto una cosa che non faceva da decenni: sintonizzarsi su un canale Mediaset. Di giorno, nientemeno (era dai tempi di Costantino Vitagliano e Alessandra Pierelli). Eravamo lì ad aspettare di vedere se Bellicapelli ci fosse o no, con quell’attesa televisiva da Vermicino (lo so, lo so: che paragone di pessimo gusto, neanche avessi figliato con la presidente del Consiglio).
Addirittura, io ho recuperato qualche minuto del “Grande Fratello”, un programma che credevo avessero chiuso da almeno quindici anni, per vedere se davvero uno avesse detto «Ti sta bene quel blu estoril» e un’altra avesse risposto «È blu Cina» (sì, davvero).
È così che si rianima un’azienda televisiva comatosa, e allo stesso tempo si demoliscono le superstizioni circa quella leggenda metropolitana che sono le raccomandazioni italiane. Se c’è una cosa che c’insegna Bellicapelli è che essere parente di qualcuno può darti una chance, ma se non hai le qualità per giocartela sarebbe stato meglio tu non ne ricevessi mai una.
A meno che, certo, fare il giornalista televisivo e il convivente della capa d’Italia non sia stata che una tappa della tua ascesa a una gloria postmoderna in cui quelli che ora paiono inciampi saranno punti simpatia. Immaginiamo un Giambruno, chessò, concorrente di “Pechino Express” (in coppia con Renato Zero, che si dice gli abbia regalato una Smart: Giambruno è già leggenda, era sprecato a fare la persona seria).
Infine, Giorgia, rappresentazione plastica di come funzioni il successo oggi: più col consenso che col talento, più con l’immedesimazione che con la verticalità. Una influencer è un “Abitudinario”, quello di Elio e le storie tese, che riceve molti cuoricini da gente che pensa: se ce l’ha fatta lei, allora anch’io.
Perfino nel post di mollamento, una specie di versione più pubblica e vieppiù umiliante della leggenda secondo cui Daniel Day Lewis aveva mollato Isabelle Adjani con un fax, persino lì Giorgia Meloni sa giocare le carte del sentimentalismo e dell’immedesimabilità. Buttando lì che la figlia «ama il padre come io non ho potuto amare il mio».
Sono Giorgia, sono una donna, sono senza padre, sono circondata da uomini meno capaci di me che rallentano la mia ascesa, sono piena di rotture di coglioni e mai nessuno che mi risolva problemi invece di crearmene, e sto con uno con cui proprio non so come mi sia venuto in mente di mettermi: siete come me.