Do ut BruxellesLe Big Tech spendono sempre di più per il lobbying nelle istituzioni Ue

Secondo la Corporate Europe Organisation, negli ultimi due anni le aziende tecnologiche americane hanno aumentato del 16,5 per cento la loro spesa per finanziare il lobbismo nelle sedi della Unione europea, passando da novantasette a centotredici milioni di euro

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La strada che dalla Silicon Valley porta a Bruxelles non è mai stata lastricata di buone intenzioni. Lo riconferma un nuovo report realizzato dal Corporate Europe Observatory (l’Osservatorio corporativo europeo) e dall’organizzazione LobbyControl, secondo cui le spese sostenute da aziende tech per attività di lobbismo in Unione europea sarebbero aumentate del 16,5 per cento solo negli ultimi due anni, passando da novantasette a centotredici milioni di euro. In cima alla classifica delle compagnie più attive in questo senso – basata sul registro per la trasparenza Ue, una banca dati che raccoglie ed elenca le azioni di pressione e gli interessi perseguiti – c’è Meta, la compagnia proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp, che nel 2022 avrebbe speso circa otto milioni di euro per cercare di influenzare i processi di legislazione e attuazione delle politiche dell’Unione. Un incremento notevole rispetto al 2020, quando l’esborso stimato della creatura di Mark Zuckerberg ammontava a 5,5 milioni. 

Lobbismo e Big Tech
L’indagine rivela il coinvolgimento di seicentocinquantuno aziende internazionali, ma la minaccia di ingerenze sul piano politico arriva soprattutto da Oltreoceano e riguarda le Big Tech della Silicon Valley. Secondo quanto emerso dal report, anche Apple avrebbe raddoppiato i propri sforzi, passando da una spesa di 3,5 milioni a sette milioni di euro. Seguono a ruota Google (5,5 milioni) e Microsoft (cinque milioni), con una menzione speciale per il colosso dei semiconduttori Qualcomm, balzato da 1,75 milioni di euro nel 2020 a quattro milioni. Qualcomm si occupa della produzione di microchip e di modem per la telefonia mobile, per esempio quelli contenuti negli iPhone (anche se l’azienda della mela sta lavorando da tempo a una versione di proprietà del componente). 

Sebbene anche compagnie cinesi come TikTok e Alibaba stiano aumentando i loro investimenti su questo fronte, i loro budget (rispettivamente novecentomila e seicentomila euro) restano di gran lunga inferiori a quelli dei giganti statunitensi. Anche le realtà “di casa” fanno la voce meno grossa rispetto alle controparti americane: solo due posti della classifica delle compagnie tech che più hanno finanziato il lobbying sono infatti occupati da realtà europee. Si tratta di società di telecomunicazioni: la spagnola Telefónica (da 1,5 a due milioni di euro) e la tedesca Deutsche Telekom (da uno a due milioni), entrambe new entry rispetto alla lista del 2020.

«Il Covid ha accelerato la digitalizzazione delle nostre società e di conseguenza il potere esercitato dalle Big Tech. I nostri dati sui loro bilanci dimostrano che queste ultime sono disposte a usare le loro enormi risorse per ritardare, annacquare e modellare qualsiasi normativa che possa limitare il loro modello di business. Oppure, indebolire il loro potere di mercato», spiega a Linkiesta Bram Vranken, ricercatore del Corporate Europe Observatory che ha partecipato alla realizzazione del report.

I numeri emersi dal documento, del resto, confermano un fenomeno già noto. Basti pensare al 2020, quando la Commissione europea presentò il Digital Service Act (Dsa), il pacchetto di leggi (poi approvato) che avrebbe imposto a molte piattaforme online maggiore trasparenza, moderazione dei contenuti e tutela della privacy. Immediatamente i colossi della Silicon Valley criticarono il pesante onere della nuova misura e la sua presunta mancanza di chiarezza. Qualche settimana dopo, l’amministratore delegato di Google Sundar Pichai si scusò pubblicamente con Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, in merito ad alcuni piani trapelati dall’azienda di Mountain View che riportavano una strategia di pressione per ostacolare la nuova misura (soprattutto sul fronte dei divieti per la pubblicità digitale mirata).

Il Digital Market Act
Tra gli strumenti con i quali l’Unione vuole ridurre l’impatto lobbistico delle Big Tech c’è il Digital Market Act, la normativa sui mercati digitali entrata in vigore nel novembre 2022. Poco prima che diventasse realtà, gli eurodeputati socialdemocratici Paul Tang, René Repasi e Christel Schaldemose avevano presentato una denuncia al registro per la trasparenza, puntando il dito contro Meta, Google, Amazon e altre grandi multinazionali tecnologiche: l’accusa era di aver finanziato un gruppo di pressione esterno per influenzare le decisioni parlamentari relative sia al Digital Markets Act che al Digital Service Act. 

È stata chiesta un’indagine anche su Google e su altri gruppi di pressione, tra cui l’associazione di categoria tecnologica Computer & Communications Industry Association (Ccia) e il gruppo pubblicitario Iab Europe. Secondo le denunce, le società avrebbero ingannato i legislatori europei durante i negoziati su entrambe le leggi, nascondendosi dietro a dei prestanome: lobby che presumibilmente rappresentavano le piccole e medie imprese, alle quali fornivano finanziamenti e istruzioni. Come rivelato da Politico, i gruppi «fingevano di essere i rappresentanti ufficiali delle pmi e allo stesso tempo promuovevano e difendevano gli interessi commerciali delle grandi aziende». Il tutto, senza rivelare i loro legami. 

«Il Digital Markets Act mira a limitare alcuni degli abusi derivanti dal potere monopolistico delle Big Tech – prosegue Vranken -. I gatekeeper (ovvero le sei società colpite: Amazon, Apple, Google, Meta, Microsoft e TikTok) saranno per esempio costretti a smettere di preferire i loro prodotti sulle proprie piattaforme e ci sarà un maggiore controllo nelle fusioni e nelle acquisizioni dei colossi digitali». La legge rappresenta indubbiamente un passo avanti. Resta però da vedere se riuscirà a modificare equilibri ormai ampiamente consolidati: «Le realtà interessate stanno già esercitando forti pressioni per ammorbidire gli spigoli vivi della legislazione. Inoltre, distratta da tutta questa enfasi, l’Ue sta perdendo l’opportunità di andare oltre e di creare nuovi strumenti strutturali per smantellare le società del settore digitale in Europa. Finché non si affronta questa concentrazione economica, il potere lobbistico delle Big Tech rimarrà intatto», conclude il ricercatore.

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