Dottrina BidenLa crisi in Medio Oriente mostra perché l’America è l’unica superpotenza militare

Il ruolo di Russia e Cina nel conflitto tra Israele e Hamas è limitato e non incisivo. Che si arrivi a una soluzione diplomatica o a un’escalation, a determinare gli schieramenti della guerra o della tregua sarà ancora il sistema di alleanze statunitensi e il dialogo con le potenze regionali mediorientali

LaPresse

Il ritorno del conflitto israelo-palestinese al centro della scena internazionale sta dimostrando che, nel bene e nel male, gli Stati Uniti sono ancora l’unica vera superpotenza. Erano almeno quindici anni che le amministrazioni statunitensi cercavano di ridurre l’impegno in Medio Oriente per concentrarsi su fronti considerati più importanti per l’interesse nazionale. Anche Joe Biden è andato alla Casa Bianca con la convinzione che l’impegno di Washington nella regione fosse una distrazione da sfide più urgenti, a partire dall’ascesa cinese. Ma di fronte al momento più buio di un alleato così importante gli Stati Uniti non hanno perso tempo nel prendere atto che un disimpegno dal Medio Oriente non sarà una prospettiva realistica ancora per molto tempo, e che va elaborata una nuova strategia che parta da presupposti diversi.

Mai come questa volta un’amministrazione statunitense è stata attiva in una crisi Gaza-Israele. La Casa Bianca ha messo immediatamente in campo il massimo sostegno diplomatico e militare per garantire a Israele il diritto alla difesa e alla risposta all’aggressione subita, e allo stesso tempo ha invitato il premier Benjamin Netanyahu a contenere la reazione israeliana rievocando gli errori degli Stati Uniti, ma mettendo in guardia l’Iran dall’attaccare direttamente lo stato ebraico o le truppe statunitensi nella regione. 

I risultati sono stati parziali, i più critici diranno addirittura inesistenti, ma più passano i giorni più appare chiaro che senza le pressioni statunitensi Netanyahu non avrebbe rimandato l’inizio dell’operazione di terra, rischiando di cadere nella trappola di Hamas e infilare le Forze di difesa israeliane (Idf) in un sanguinoso pantano. Ciò avrebbe indebolito la capacità difensiva di Israele e offerto la possibilità di un attacco più massiccio dal Libano da parte degli Hezbollah, la milizia filo-iraniana che condivide con Hamas e l’Iran l’obiettivo della distruzione dello stato ebraico.

Il ruolo della Russia e della Cina in questa crisi è molto limitato, nonostante la significativa presenza militare russa in Siria e il ruolo cinese nel ripristino delle relazioni diplomatiche tra l’Arabia Saudita e l’Iran. L’unica contribuito che sembrano poter offrire Mosca e Pechino è soffiare sul fuoco per speculare sulla tragedia palestinese condannando l’Occidente, nascondendosi dietro comode dichiarazioni di rito che può fare chiunque.

Ma né Vladimir Putin né Xi Jinping sono in grado di portare avanti un’iniziativa diplomatica costruttiva, per esempio fornendo garanzie concrete allo stato ebraico e ai paesi arabi sul governo della Striscia di Gaza se le forze armate israeliane riuscissero davvero a eliminare Hamas, e disimpegnarsi completamente da un territorio indesiderato a cui Israele è legato dal 1967.

All’atto pratico, ad affrontare la questione sono gli Stati Uniti e le potenze regionali del Medio Oriente, sia sul piano della diplomazia che della sicurezza. Che si arrivi a una soluzione diplomatica o a un’escalation, a determinare gli schieramenti della guerra o della tregua sarà ancora il sistema di alleanze statunitensi.

Per chi ha una visione della politica estera statunitense fossilizzata nel pantano dell’invasione dell’Iraq nel 2003, e dall’umiliante ritiro dall’Afghanistan nel 2021, era facile pensare che il ruolo di Washington nel mondo fosse giunto al tramonto. Mentre per chi è cresciuto nel mondo post-Guerra Fredda, in cui le guerre e le rivalità del ventesimo secolo sembravano storia antica, era comprensibile dare per scontato l’ordine internazionale plasmato dall’egemonia statunitense, e quindi non riconoscerne il valore. 

Ma poi è arrivata l’invasione russa dell’Ucraina, che ha illustrato chiaramente quanto cupo e brutale potrebbe essere un mondo post-americano. Kyiv sarebbe caduta, i paesi europei si sarebbero spaccati tra loro tra chi voleva intervenire, chi temeva per la sua sicurezza, e chi pensava solo ad assicurarsi le forniture di gas e petrolio russo. Putin avrebbe esteso il suo dominio su una parte dell’Europa, e iniziato a preparare la prossima aggressione. 

Gli attentati del 7 ottobre hanno infranto le sicurezze e risvegliato le paure di Israele, e dimostrato ancora una volta che gli Stati Uniti sono l’alleato irrinunciabile: per fermare un’escalation, o per affrontarla.

Anche per l’Europa è un duro risveglio. Se l’invasione russa dell’Ucraina ha dato un ruolo geopolitico all’Unione europea, la guerra Gaza-Israele rappresenta il momento della verità. Le prime mosse non sono brillanti, per non dire pessime. I vertici delle istituzioni europee si sono affrettati a fare dichiarazioni che a nessuno degli attori coinvolti interessava ascoltare, e nel farlo si sono contraddetti tra loro, rivelando tutta l’imbarazzante conflittualità personale e politica dei leader della bolla di Bruxelles.

Si avvicinano tempi duri per l’Europa, il mondo sta cambiando in un modo che non rispecchia l’ottimismo per il futuro che ha caratterizzato lo sviluppo e l’integrazione europea dal dopoguerra a oggi. Adottare questa o quella parola d’ordine non farà la differenza tra il successo e il fallimento nel superare le crisi. Se l’Europa vuole rafforzare la propria presenza sulla scena mondiale, dovrà avere una visione molto più lucida del mondo, e su come intende proteggere i propri interessi e valori.