Torniamo all’essenziale La cultura è l’antidoto contro gli inventori di tradizioni

Continua il confronto sullo stato di salute della gastronomia italiana e sui condizionamenti che, con più o meno fondamento, subisce dal passato. Ospitiamo oggi le riflessioni di Michele Antonio Fino

Foto di Svetlana Ponomareva su Pexels

L’oziosità della contrapposizione tra tradizione e innovazione è probabilmente seconda solo alla domanda “prima l’uovo o la gallina?” (by the way, l’uovo).

Ma in questo Paese, in cui la cucina appare sempre più come lo scoglio a cui aggrapparsi durante i marosi che scompigliano istituzioni e identità, che sulla carta dovrebbero avere ben altra solidità, ecco che la domanda si fa meno superflua e più produttiva, meno cicisbea e più creativa.

Metto insieme due folate di stimoli a firma Anna Prandoni: quella dedicata al grande spolvero della cucina italiana da ristorazione, recentemente avvistato in quel di Parigi, e il più recente racconto di un mix stellare di input tra Luca Martinelli, che non è solo un giornalista ma un sapiente cultore delle aree interne e un gran conoscitore di panificatori straordinari; Francesco Sottile, che non è solo un ricercatore nell’Università di Palermo ma è soprattutto il riferimento agronomico di Slow Food, e Alberto Grandi, che l’è quel che l’è ma soprattutto è il catalizzatore di ogni discorso giacobino interno al desco tricolore, da qualche anno a questa parte.

Ora, la disamina sulla Senna di Prandoni ha già trovato l’affilata critica di Eugenio Signoroni a chiederle (e chiederci) se abbia un senso proporre l’alta cucina italiana come un modello a cui guardare, nonostante sia indubbio quanto la direttrice osserva: raramente l’alta cucina italiana è stata in forma com’è attualmente. Ma come è emerso in Sicilia, alta cucina e tradizione gastronomica sono in un rapporto che raramente possiamo definire biunivoco: certamente, è difficile farlo per l’Italia. Il modo in cui si mangia nelle trattorie di territorio e a casa risente poco o nulla di cosa capita di gustare nelle sale dei tre stelle. I giochi di consistenze, le materie prime trattate con sopraffina capacità di accostarle, difficilmente superano la soglia dei templi laici di Crippa, Cerea, Alajmo, Romito e compagnia.

Dunque, quale succo vale la pena distillare da questa notevole e temporalmente condensata massa di stimoli? Io direi alcune cose, senza pretese di esaustività e men che meno correttezza assoluta, ché di opinioni sempre e solo si tratta:

  1. L’unico dato indiscutibile che il Belpaese offre oggi come ai tempi dell’Artusi è la varietà di climi e microclimi. Nonostante l’incedere del cambiamento climatico, tra Sciacca e Merano regna ancora un differenziale che moltissimi altri Paesi in Europa si sognano. L’Italia è un posto che offre areali per la coltivazione o l’allevamento di quasi tutto ciò che ci piace mangiare: un panorama che negli ultimissimi anni ha visto aggiungersi avocado, papaja, banane al resto, mentre la viticoltura offre ormai grandi vini in venti regioni su venti.
  2. In un contesto di questa vivacità, fare finta di non vedere che nel decennio 2010-20 ci sono state almeno otto annate con perfetta maturazione dell’uva mentre nel corrispondente 1980-90 ne avevamo avute sì e no tre, è la condizione necessaria per continuare a predicare il “facciamo come si è sempre fatto”, incuranti della circostanza che non sia vero per niente. Pressoché nulla oggi è fatto come veniva fatto trenta anni fa. Nel 1993 i vini buoni richiedevano arricchimenti, il pane con pasta madre era una rarità di certi posti dimenticati da dio e dagli uomini, frutta significava mele-pere-pesche-prugne-albicocche-ciliegie e la pizza era enormemente lontana da ciò che mani esperte e cervelli alacri ne hanno fatto oggidì.
  3. In un contesto di cambiamento climatico, di gusto e di conoscenza che ha trasformato il panorama alimentare, la vocazione di chi si propone di salvaguardare la conoscenza tradizionale non solo non è venuta meno, ma è diventata mainstream. Se oggi Slow Food ha meno soci di quanti ne avesse nell’anno del primo Salone del Gusto (2004) è perché oggi TUTTI si professano slowfoodisti, ma senza tessera: a tutti sta a cuore la tradizione, tutti anelano a conoscere qualcosa di più del piatto, dell’oste, della storia, della tradizione di quell’angolo d’Italia.
  4. Questa condizione di generalizzata fame di conoscenza delle specialità e dell’aneddotica relativa ha messo le ali ai calcagni di due tremende specie di bipedi implumi: gli inventori di tradizione alimentare e i politici interessati ad approfittarne in chiave elettorale. Non c’è cantone che non abbia una chicca (che spesso è tale in quanto fatta nel cantone, nulla più), che rivendica come autentica, che un furbo produttore o scopritore non vede l’ora di ammantare di un retaggio secolare (ma meglio se millenario) in attesa di una sagra celebrativa in cui un politico mangione non vede l’ora di tagliare nastro, allacciare bavagliolo e promettere una Igp, ma che dico Igp: una Dop!, capace di dare il giusto onore a tanta vicenda.

Ecco, se queste notazioni tra il serio e il faceto sono corrette, l’unica salvezza di chi voglia bene al cibo come a un pezzo di cultura, e non solo come a un pur vitale agglomerato di nutrienti maggiori e minori, non sta tanto e solo nell’imparare a distinguere il grano dal loglio ma nel buttare a mare i discorsi precedenti, ivi compresa l’ambizione di trovare il luogo dove, come un’araba fenice, la mitologica “cucina italiana” sia nata, ove non addirittura risorta.

Torniamo, dunque, all’essenziale:

  1. la grandezza alimentare del Paese si connette storicamente, da poco meno di duecento anni, con la varietà di areali e quindi di produzioni. Esaltiamola, ma senza parlare di ogni angolo come un Clos Vougeot: piuttosto, riconoscendo nella multifattorialità “geografia-savoir faire-genoma di piante e animali” il segreto, in divenire incessante, della qualità. Abbracciamo il divenire della diversità;
  2. la tradizione alimentare italiana si sviluppa su base nazionale grazie alla borghesia e alla prima industrializzazione. Questo significa che da noi le grandi elaborazioni sono da sempre riverite ma sono rimaste un corpo sostanzialmente estraneo al mangiare dei più: gli Italiani dalla seconda metà dell’Ottocento amano materie prime di cui possono distinguere la qualità, preparazioni con pochi ingredienti (perché per usarne più di quattro in un piatto tocca essere bravi, cit.) e molto più fresco rispetto al conservato (siamo l’unico Paese in cui se usi il surgelato, e non lo dichiari, ti becchi una denuncia per frode in commercio);
  3. la scoperta della dieta frugale successivamente denominata (con grande scelta di marketing) mediterranea, come segreto di longevità dovrebbe essere come la foto di Mattarella nelle aule scolastiche: il nume tutelare di ogni selezione, scelta di preparazione, valutazione di somministrazione. La cucina italiana sia improntata alla frugalità, alla base essenzialmente vegetale, con minime e sporadiche dosi di proteine da carne e un uso sapiente della incredibile ricchezza gustativa di olii e latticini.

E ce ne sarà davvero per tutti i gusti.

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