Dialoghi sullo stato dell’arte Gli italiani lo fanno meglio?

Riceviamo e pubblichiamo una risposta al nostro editoriale sulla cucina italiana come modello di riferimento della cucina mondiale. Eugenio Signoroni ci offre il suo punto di vista sul tema

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L’editoriale di Anna Prandoni “Gli italiani lo fanno meglio. Nemo propheta in patria” uscito qualche giorno fa su questo sito ha avuto il merito di accendere una piccola, ma significativa discussione sul ruolo della cucina italiana contemporanea. L’ho letto con grande interesse ma mi è parso fuori fuoco per alcuni motivi che provo a elencare qui di seguito.

Nell’articolo si dice che la nostra cucina sarebbe “anni luce avanti a ogni alternativa mondiale” e si afferma che sia a un livello di “bravura tecnica, capacità espressiva e profondità” che non ha pari.

Forse è così, ci sono sicuramente cuochi italiani che stanno proponendo una cucina straordinaria ma che senso ha paragonarli con il resto del mondo? Non si tratta di un campionato e non è la loro superiorità tecnica ed espressiva ad aver reso le altre cucine influenti.

Su questo tema si dice che dopo aver guardato alla Francia, alla Spagna, al Nord Europa e al Perù oggi bisognerebbe guardare all’Italia. Qui però c’è un problema: le influenze non si caldeggiano, ma si impongono da sole e nel tempo, perché nuove, dirompenti, d’avanguardia. Se questo avverrà allora Anna avrà avuto ragione ma se non si guarda all’Italia come un “modello” forse è perché oggi questo modello non c’è. Il che non significa che non ci siano proposte nuove, dirompenti e d’avanguardia, ma non credo che si possa dire che esse sono così diffuse da rappresentare un modello, uno stile o una scuola alla quale ispirarsi.

Inoltre affermare che il punto forte e distintivo del nostro Paese sia la biodiversità rende nulla la possibilità di diventare un punto di riferimento e di influenza. Secondo Anna Prandoni non è solo il nostro modo di trasformare quella biodiversità, ma è soprattutto la nostra capacità di sceglierla a fare la differenza e a renderci superiori. Se quella biodiversità però ce l’abbiamo solo noi (cosa anche questa da verificare) allora il nostro modello di cucina non potrà mai fare scuola, ma al massimo potrà servirci per dire “siamo i più bravi!”. E sempre in tema di scoperta della nostra biodiversità io ho la sensazione che non sia tutto merito nostro, ma che si tratti piuttosto di una reazione a movimenti altri (Nord Europa? Sudamerica?) che su questo hanno fatto prima e più compattamente di noi.

E infine una cosa che proprio non ho capito. Ma perché mettere in contrapposizione la tutela delle ricette tradizionali con la nuova cucina italiana?

Lasciamo che esistano entrambe, lasciamo che la tradizione grazie al fatto di continuare a esistere (pur nelle sue mille forme) possa essere una fonte di ispirazione o un motivo di rottura. Anzi, forse anche la ricerca della versione più autentica (che sappiamo tutti non esistere e non essere altro che un esercizio accademico) potrebbe essere una forma d’avanguardia, come ha per esempio ben mostrato Matteo Baronetto qualche tempo fa con la sua riflessione gastronomica sulla cucina piemontese.

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