Italiani veriGli stranieri di seconda generazione lavorano pochissimo (e non possiamo permettercelo)

I figli delle persone arrivate nel nostro Paese non sono né il cavallo di Troia della cosiddetta sostituzione etnica, come pensano i reazionari, né un’avanguardia di un nuovo stile di vita. Sono come noi, con tutti i pregi e i difetti

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Purtroppo sono molti gli indicatori in cui l’Italia finisce agli ultimi posti tra i Paesi dell’Unione Europea, in alcuni casi siamo esattamente ventisettesimi su ventisette, venendo superati anche da tutti gli Stati membri dell’Est, ma forse i più significativi sono quelli che riguardano il mercato del lavoro. Nonostante i miglioramenti degli ultimi anni il tasso di occupazione italiano, del 61,5 per cento, rimane basso rispetto a quello dei nostri vicini. Uno dei pochi dati positivi in questo ambito è sempre stato quello relativo agli immigrati: tra loro la percentuale di quanti hanno un lavoro è sempre stata superiore o molto vicina alla media nazionale, al contrario di quel che accade altrove. 

Naturalmente a incidere è anche la necessità di sbarcare il lunario di chi arriva dall’estero e non ha alcun paracadute, nessuna rete familiare, nonché la continua ricerca di un basso costo del lavoro nei settori più poveri, quelli, non a caso, affollati da immigrati senza competenze specifiche. Tuttavia è innegabilmente vantaggioso per tutti che il loro tasso di occupazione sia elevato.

Dati Eurostat

Le cose cambiano, però, nel caso dei figli di tali immigrati. Questo è il dato più negativo di tutti, e sta emergendo solo ora che coloro che sono nati dagli stranieri negli ultimi decenni stanno giungendo in età lavorativa. Il tasso di occupazione di quanti hanno un genitore straniero è solo del 45,3 per cento, il più basso d’Europa dopo quello greco, quello di chi li ha entrambi stranieri, però, scende a un misero 23,7 per cento, il minore in assoluto nella Ue.

Dati Eurostat

A essere particolarmente inquietante è la differenza tra la seconda generazione e la prima. Mediamente nella Ue si passa da un tasso di occupazione del 72,1 per cento per i nativi con genitori nativi a uno del 67,6 per cento per gli stranieri nati all’estero a uno, infine, del 62,6 per cento per i figli di questi ultimi. Non sono differenze enormi, un chiaro esempio è la Germania, dove le persone di seconda generazione, nate da immigrati, hanno un lavoro nel 70,1 per cento dei casi. In Italia cambia tutto, il 70,1 per cento tedesco diventa il 23,7 per cento, un tasso di occupazione 2,7 volte più basso di quello degli altri, che siano italiani di origine o stranieri di prima generazione, che è saldamente superiore al sessanta per cento. 

Dati Eurostat

Divari così ampi sono presenti anche in Spagna, dove la percentuale di seconde generazioni con un impiego è di ben il 40,7 per cento inferiore a quella che caratterizza gli autoctoni, ma non in Germania, Francia, Paesi Bassi.

Dati Eurostat

Perché questi numeri così diversi? Una prima ragione molto semplice è che in Italia e in Spagna gli stranieri di seconda generazione sono mediamente più giovani che altrove, l’immigrazione è stata più recente e non vi sono molti figli di immigrati con più di trenta anni. E si sa, nei Paesi mediterranei di lavoro per i ventenni ce n’è poco. Tuttavia anche considerando solo chi ha tra i quindici e i ventinove anni i divari persistono, pur se sono minori.

Il tasso di occupazione dei ventenni che hanno entrambi i genitori stranieri è in Italia del 15,6 per cento più basso di quello dei nativi figli di nativi, in Spagna del 18,2 per cento, mentre nei Paesi Bassi e in Germania il gap è rispettivamente del 14 e dell’11,5 per cento. In questo segmento di età le seconde generazioni francesi, però, sono messe ancora peggio delle nostre quanto a disuguaglianze nel mondo del lavoro, e il dato non stupisce davanti alle frequenti tensioni e rivolte nelle banlieues.

Dati Eurostat

Meno di un giovane figlio di stranieri su cinque lavora. La media europea è del 44,6 per cento, quella tedesca del 55 per cento. Notevole la differenza con i dati dei coetanei italiani, tra cui ad avere un impiego è il 35,2 per cento e soprattutto con quelli dei 20enni che sono nati all’estero, tra cui lavora il 44,5 per cento.

Dati Eurostat

Sembra che nelle seconde generazioni venga meno quell’urgenza di svolgere un lavoro, qualsiasi sia, anche se pagato male, anche se da sfruttati, che caratterizza chi è appena arrivato nel nostro Paese. Il comportamento dei figli di immigrati diventa più simile a quello degli italiani della stessa età, tuttavia tra i giovani sono quelli più sfavoriti. Innanzitutto manca loro qualsiasi network, come quello di cui possono beneficiare, per esempio, quanti hanno un padre o una madre in posizioni di rilievo, visto che queste ultime sono occupate pressoché totalmente da italiani.

L’Istat ci dice, non a caso, che il 52,3 per cento dei figli di alti dirigenti e grandi imprenditori è a sua volta dirigente, imprenditore, professionista. Al contrario a ricoprire tali ruoli sono solo il 19,2 per cento di coloro che hanno genitori che hanno svolto lavori non qualificati, nonostante siano quasi quattro su dieci i lavoratori impiegati in queste mansioni. E sappiamo bene come tra costoro la concentrazione di stranieri sia molto alta.

Non solo, solo poco più del dieci per cento dei genitori stranieri di under 30 ha una laurea, contro più del diciotto per cento dei genitori italiani. Come sappiamo anche nell’istruzione il legame ereditario conta tantissimo: i figli di chi non si è iscritto all’università tenderanno a farlo meno dei figli di chi si è laureato. Per questo le seconde generazioni di stranieri hanno un’istruzione meno elevata degli autoctoni. E la presenza o meno di una laurea negli ultimi anni conta sempre di più, si è allargato il gap tra le possibilità di lavoro e carriera di chi ha un diploma e di chi ha proseguito gli studi.

La presenza di un titolo universitario, non a caso, diminuisce il divario tra figli di stranieri e figli di italiani. Se tra i secondi il tasso di occupazione a meno di trent’anni è del 56,3 per cento, tra i primi scende, sì, ma non in modo eccessivo, al 50,6 per cento. Si tratta di una differenza analoga a quella presente in altri Paesi, posto che nel resto d’Europa le percentuali dei giovani con un lavoro sono molto più alte. Tra i diplomati, invece, la distanza rimane ampia, del 12,3 per cento.

Dati Eurostat

C’è un altro fattore decisivo, anche se qui causa ed effetto naturalmente si confondono, è la presenza della cittadinanza italiana o meno. Anche a parità di titolo di studio, il diploma per esempio, tra i giovani figli di immigrati che la cittadinanza l’hanno ottenuta il tasso di occupazione è del 37,3 per cento, maggiore di quella del 32,6 per cento di chi risulta ancora straniero all’anagrafe. Interessante è anche il fatto che i laureati senza cittadinanza siano così pochi che Istat ed Eurostat non li censiscono neanche. Spesso è la presenza stessa di un lavoro a favorire l’acquisizione di cittadinanza, ma è comunque evidente come la minore integrazione si accompagni a peggiori condizioni lavorative.

 

Dati Eurostat

Questi numeri in generale non sono solo indicativi di una diseguaglianza che è negativa in sé, anche perché superiore a quella presente in altri Paesi, ma anche, e forse soprattutto, di un grande spreco di opportunità per tutto il Paese. Nella crisi demografica che attraversiamo, che ci vede nella situazione peggiore in Europa, non possiamo permetterci di lasciare ai margini 20enni e 30enni, tra l’altro appartenenti a uno dei pochi segmenti della popolazione in crescita, quella, appunto, delle seconde generazioni.

Non è solo ingiusto, è un errore, e gli errori costano. È il classico costo opportunità, l’ennesimo nel mondo del lavoro italiano, come quello che da sempre interessa le donne, la metà delle quali non è valorizzata perché al di fuori del mercato, e i giovani stessi. Le seconde generazioni sono in Italia innanzitutto perché ci sono nate e ci resteranno, non saranno il cavallo di Troia della cosiddetta sostituzione etnica, come pensano molti conservatori, e probabilmente neanche un’avanguardia di un nuovo stile di vita, come pensano in termini positivi alcuni progressisti. Saranno e sono già italiani come gli altri, con tutti i pregi e i difetti che gli italiani hanno, sta a noi fare di tutto perché i loro talenti siano sfruttati a vantaggio loro e di tutto il Paese.

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