MediterraneaLa gastronomia, la tradizione e l’intellettuale organico

Dopo le riflessioni di Michele A. Fino, restiamo in tema di cucina italiana e ospitiamo il parere di Alberto Grandi, studioso di storia della scienza e della cultura degli alimenti

Foto di Héloïse Delbos su Unsplash

Devo dire la verità, quando su queste colonne ho letto l’articolo dell’amico Michele Antonio Fino “La cultura è l’antidoto contro gli inventori di tradizioni”, ho provato una certa perplessità sul finale. Pur condividendone il contenuto al cento per cento, quell’ultima considerazione che di fatto definisce la dieta mediterranea solo come il nome promozionale della storica frugalità italiana, mi è sembrata una concessione troppo generosa all’invenzione di Ancel Keys. Una concessione troppo generosa e forse anche un po’ pericolosa, perché assecondare la convinzione che la dieta mediterranea sia in qualche modo legata alle nostre tradizioni alimentari è proprio ciò di cui l’Italia non ha bisogno.

Un Paese in grave crisi di identità e che per questo si aggrappa alla propria cucina con il classico meccanismo dell’invenzione della tradizione, non deve ricevere alcun incoraggiamento in questa perversa riscrittura del proprio passato gastronomico. La dieta mediterranea ormai da anni è un feticcio da esporre in maniera acritica e intorno al quale costruire una narrazione grottesca. Perché diciamocelo chiaro e netto, la triade mediterranea (ulivo, grano e vite) non è mai stata alla base dell’alimentazione nel Mezzogiorno italiano. Nel Sud Italia fino agli anni Cinquanta si consumava pane nero e come condimento si usava per lo più il grasso di maiale.

L’alimentazione basata sul consumo dei derivati del frumento o di altri cereali, del vino, di olio d’oliva, di ortaggi, verdure e legumi di fatto è soltanto un’astrazione che non trova riscontro nella maggior parte delle cucine mediterranee. Quello che scoprirono i ricercatori del team di Keys negli anni Cinquanta era il mondo della fame; quando arrivarono in Calabria e nelle zone interne della Sicilia dovettero fare i conti con la fame nera e con gli occhi sporgenti e lucidi di bambini denutriti.

Ecco, io non vorrei che questa dura realtà storica venisse confusa con la frugalità, che è invece un valore positivo. Però alla fine si tratta solo di provare a costruire una nuova narrazione e in questo senso l’articolo di Fino può rappresentare un tassello fondamentale. Se l’obiettivo è quello di rendere consapevoli gli italiani delle loro effettive tradizioni e del peso che l’agroalimentare può davvero giocare nell’economia del Paese, la mia rigidità terminologica e la mia passione per la provocazione e lo scontro, di certo, non aiutano.

Mi è allora venuto in mente l’insegnamento di Antonio Gramsci, quando ci spiega che il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nella pura e semplice eloquenza, che alla fin fine è solo un traino superficiale privo di reali affetti e passioni. Al contrario, l’intellettuale deve mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore e persuasore, proprio perché non è un puro oratore, ma allo stesso tempo deve essere superiore allo spirito astratto matematico; quindi, dalla tecnica-lavoro deve giungere alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente.

In altre parole, bisogna intercettare lo spirito del tempo e provare a introdurvi qualche elemento di consapevolezza in più. E il lessico è fondamentale, prima di tutto per essere compresi e in secondo luogo per innescare il pensiero critico. Se usare l’espressione “dieta mediterranea” per descrivere ciò che normalmente viene definito con altri termini può allargare il perimetro del dibattito, ben venga, ma dobbiamo essere disposti a confrontarci in ogni sede e in ogni occasione per contrastare la narrazione corrente. Come sapete, su di me potrete sempre contare.

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