L’onore delle donneI leoni di Sicilia e i superpoteri delle ragazze liberatesi dell’imene

Dalla serie tv tratta dalla saga di Stefania Auci, che ricorda quelle favolose di Teodosio Losito, si imparano due cose: gli arricchiti non riusciranno mai a sembrare ben nati, e le giovani miti e rassegnate hanno a disposizione un modo infallibile per diventare assertive e risolute

Leoni di Sicilia, Disney+

La cosa più importante che ho imparato guardando “I leoni di Sicilia”, lo sceneggiato televisivo tratto dal romanzo di Stefania Auci che hanno letto tutti tranne me, è che l’imene funziona al contrario dei capelli di Sansone. Cosa che ignoravo due giorni fa, prima di guardare le prime puntate della serie, figuriamoci quanto la ignoravo a metà anni Ottanta.

Quand’ero alle medie arrivò in Italia il Trivial Pursuit, gioco da tavolo coi quiz di cultura generale. Saranno trentacinque anni che non ci gioco, ma ancora mi ricordo quanto mi sembrasse stupendissimo quando uscì. E mi ricordo la risposta che non capivo.

La domanda era: le due cose che i Lloyd’s di Londra non assicurano. La risposta era: le perdite al gioco, e l’onore delle donne. Pigolai: e quello degli uomini sì? Mio padre alzò gli occhi al cielo come chi ha una figlia proprio scema e cos’ha fatto per meritarsela, e didascalizzò: l’onore delle donne è la verginità.

Non avevo Instagram cui rivolgermi per farmi dire che schifo, che vessazione, il patriarcato, la donna con l’imene stracciato è disonorata e l’uomo invece può fare come gli pare, quindi mi limitai a imparare una cosa nuova: i Lloyd’s di Londra non assicurano l’imene.

Era un’epoca in cui intuivamo che «Lloyd’s» fosse il nome d’una compagnia d’assicurazioni pur senza avere Google, e che la verginità fosse cosa di femmine pur senza avere Instagram. Era meglio? Era peggio? E io che ne so.

Fatto sta che – immagino che la storia la sappiate tutti, avendo “I leoni di Sicilia” venduto quanto negli anni del Trivial vendeva Umberto Eco – quella dei Florio è la dinamica del “Gattopardo” vista dalla parte di Calogero Sedara: la storia d’un arricchito in un contesto di aristocratici squattrinati, nessuno dei quali ha la grazia e la poesia del principe di Salina (né l’irresistibilità di Tancredi).

Tra la fine del Novecento e l’inizio di questo secolo, c’erano degli sceneggiati televisivi favolosissimi che noialtre fanatiche sapevamo essere scritti da Teodosio Losito, leggendaria figura passata pure per Sanremo con una canzone il cui ritornello diceva «ma chi gatto me l’ha fatto fare», e che il grande pubblico riconosceva dal cast, che quasi sempre includeva Gabriel Garko e Manuela Arcuri.

Non farò i nomi perché sono una persona caritatevole, ma ricordo benissimo una serata in cui un intellettuale, presentandomi ad alcuni suoi pari, disse col tono di scuse di chi ha l’amica cretina qualcosa tipo: lei ha dei gusti strani, le piacciono le serie con Garko.

Quelli di voi che nel 2009 leggevano i giornali ricorderanno la volta in cui uno di questi sceneggiati, “L’onore e il rispetto”, fece il doppio degli spettatori di Bruno Vespa che in prima serata intervistava Silvio Berlusconi, e fu allora che gli intellettuali italiani – gente che si affanna sempre per prendere battelli che ha ormai perso, e con quei battelli passare per fiumi sulle cui rive io sto seduta – decisero che bisognava interessarsi a quel modello narrativo.

Modello che aveva un gravissimo difetto, in un paese in cui Balzac è letto così poco e male da non saperlo distinguere da Delly: negli sceneggiati di Losito succedevano cose. Molte cose, in ogni puntata: gente che moriva, gente che scopava con gente con cui non avrebbe dovuto scopare, gente che faceva bancarotta. C’era la trama, che volgarità.

Nelle prime puntate (quattro escono su Disney+ oggi, le altre quattro la settimana prossima) dei “Leoni di Sicilia” succedono tantissime cose, c’è tantissima trama a distrarci da una certa qual schizofrenia: la prima puntata finisce con una citazione visiva di Pellizza da Volpedo e sopra una canzone dei Muse – Sofia Coppola, scansati – ma poi sui titoli di coda parte la Pausini, e il dj è impazzito oppure ha bevuto (tanto i titoli di coda in streaming non li vede nessuno, la Pausini viene occultata al pubblico forestiero e ti fa avere tantissimi articoli in Italia).

Ma non distraiamoci con le canzonette, torniamo alle cose che succedono nella storia. Una, che nel libro si colloca più avanti, succede subito, perché gli sceneggiatori italiani non si fidano delle trame e vogliono che il tema sia annunciato da subito.

E il tema è, in una battuta di una delle prime puntate, «puoi avere tutti i soldi di questo mondo, ma faranno sempre puzza di sudore». Ovvero: possono mai capirsi i ben nati e gli arricchiti? (Ovviamente la risposta è no, ma le storie di lotta di classe funzionano come le commedie romantiche: non conta il punto d’arrivo, ma il percorso).

E quindi nella prima scena il barone chiede un prestito all’arricchito (giacché, come sa chiunque abbia vissuto a Roma, non esistono aristocratici non decaduti). E l’arricchito lo umilia. Perché cosa fai i soldi a fare, se non per farli cadere dall’alto a chi non ne ha, ma ha lignaggio. A chi comunque ti disprezza: «E quando eravamo poveri, perché eravamo poveri. E ora che stiamo bene, perché stiamo bene». Avrebbero potuto intitolarlo “Il «ti tirano le pietre» di Sicilia”.

Ma non vi sarete già dimenticati dell’imene. A un certo punto, è la fine della seconda puntata, arriva Miriam Leone. Che è subito strana: legge. Una donna con dei libri, ma chi è quest’aliena. L’arricchito s’innamora istantaneamente (c’entrano certamente i libri, mica il fatto che abbia l’aspetto di Miriam Leone). E dice a un suo aiutante «Scopri a chi appartiene». È una scena degli anni Trenta del diciannovesimo secolo, ma potrebbe svolgersi alla fine del Novecento: chi è, come nasce, cosa fanno i suoi genitori.

Ho visto le puntate coi sottotitoli in inglese, perché ormai mi sono abituata a quella scialuppa che sono i sottotitoli, se mi distraggo dall’ascoltare butto un occhio allo schermo e so più o meno cosa sta succedendo, e nelle puntate che Disney ha mandato in anteprima a noialtri stronzi che scriviamo sui giornali i sottotitoli italiani non c’erano.

Tutta questa premessa per giustificare il mio sapere cosa diventa, in inglese, «scopri a chi appartiene»: un ben più neutro e non sessista «Let’s find out who she is». Poveretto il pubblico cui le multinazionali devono edulcorare le brutte abitudini della Sicilia d’epoca.

Comunque, poi l’arricchito e Miriam Leone copulano; spero che nessuno verrà a dirmi «spoiler»: se non capite che scoperanno già dal quinto secondo del loro primo dialogo, significa che dovete guardare al massimo i cartoni animati.

Copulano nonostante lei sia una specie di suora laica che i genitori hanno deciso dovrà vivere a casa loro e non potrà mai sposarsi, perché la madre è molto malata e sennò chi altri le fa da badante gratis.

Copulano nonostante l’arricchito le dica da subito che non la potrà sposare mai: deve sposare un’aristocratica per riscattare il puzzo dei soldi recenti e vendicarsi degli aristocratici che pure se ormai è straricco ancora gli urlano «facchino», e con meno allegria di quella che aveva Alberto Sordi nell’urlare «lavoratori».

Copulano e il giorno dopo lei, che fino a quel momento aveva fatto la serva di casa senza neanche un accenno di ribellione, liberatasi dell’imene diventa una specie di spot L’Oréal degli anni Ottanta, una che vive nel progresso e nella performance, che tiene testa a padre e fratello scandalizzati, che va ad abitare da sola nell’appartamento di uno del quale farà la mantenuta, che non si preoccupa della reputazione, che se ne catafotte se non c’è nessuno ad accudire la mamma malata.

Gli arricchiti non smetteranno mai di puzzare di facchino e non riusciranno mai a sembrare ben nati, ma le donne miti e rassegnate, beh, quelle falle scopare e vedi come diventano assertive e risolute.

Forse era per quello, che i Lloyd’s di Londra non assicuravano l’onore delle donne: perché sapevano che zavorra fosse, ed erano consapevoli che liberartene ti facesse venire i superpoteri.

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