«Oggi inizia la resistenza», twitta Francesca Michielin, che di mestiere presenta X Factor, ma è evidentemente pronta non dico a salire sulle montagne col mitra ma almeno ad andare a Cortina con un paio di sci nuovi (spero che gli impianti ampezzani di neve finta siano migliorati rispetto ai miei tempi, quando la rivoluzione volevamo farla, pensa te, contro la Dc, ma almeno non avevamo luoghi pubblici in cui dichiarare la nostra scemenza giovanile).
Il giorno prima, mentre l’Italia votava come ampiamente previsto Giorgia Meloni, la sinistra dell’Instagram s’indignava per le stronzate, come aveva fatto per tutto il resto della campagna elettorale e della vita.
È normale che sia così: siamo una società in cui il benessere è diffuso e i bisogni primari sono soddisfatti, ci resta tempo per occuparci di stronzate e quindi lo facciamo. Il dettaglio grave è l’apparente incapacità di distinguere tra le stronzate e le cose serie, riuscendo ad avere l’approccio sbagliato a entrambe.
L’elettore che s’informava dall’indignatissima militanza di Instagram non sapeva in che modo i candidati a governare questo miserabile paese intendessero affrontare il problema della scuola, che produce analfabeti che da grandi ci spiegheranno il mondo su Instagram; non sapeva in che modo intendessero affrontare la sanità, che la militanza sa solo di volere gratuita salvo poi trasecolare se ci sono attese di mesi per esami che non si pagano e quindi conviene farli; non sapeva che cosa nessuno dei candidati pensasse delle cose rilevanti, ma solo di quelle che la militanza di Instagram aveva deciso essere dirimenti.
E cioè: i temi identitari e quelli da studenti fuori sede. Come si pone il candidato rispetto alla schwa? Come rispetto al far votare il puccettone di mamma sua che a quarant’anni è ancora residente al paesello così mammà se lo detrae dalle tasse? Come, giuro che girava uno schemino con questa fondamentale informazione, rispetto al numero chiuso nelle università?
Fuori dall’Instagram, quelli che si prendevano il disturbo di andare a votare (sempre meno: chissà come mai, con tutto il lavoro che fa per noi la militanza di Instagram, siamo proprio degli ingrati) cercavano un candidato che gli promettesse che scaldare casa non gli sarebbe costato un rene, che quando il medico di base va in pensione fosse possibile trovar posto da un altro, che all’asilo ci fosse posto per puccettone.
Dentro l’Instagram, ci si scandalizzava forte. L’attivista Corinna De Cesare, più o meno quarantenne, indignata perché il presidente di seggio si sarebbe risentito per la di lei maglietta con scritto «Fuck patriarcato», traumatizzando anche la di lei figlia seienne che «assisteva a un abuso», faceva una sleppa di storie di Instagram taggando Beppe Sala, il quale avrà dovuto smettere di fotografarsi leggendo i suoi stessi libri per ascoltare le cronache del tizio che aveva detto alla De Cesare «La segnalo alla Digos» (qualunque cosa questa frase significhi).
Quello che ci meritiamo sono evidentemente attiviste quarantenni che pensano i seggi elettorali siano di competenza del sindaco (d’altra parte anche Chiara Ferragni, nelle sue storie Instagram sulla sicurezza a Milano, taggava il sindaco e non il prefetto; ma lei almeno è multimilionaria).
L’attivista Cathy La Torre, anche lei adulta, dedicava la sua sleppa di storie Instagram allo scandalo d’ogni tornata elettorale o referendaria. Appena la militanza di Instagram entra in un seggio, scopre l’atroce verità che l’elettorato è mammifero epperciò le file sono divise in maschi e femmine, e si costerna, s’indigna, s’impegna a cambiare le cose – sì, insomma: a ricavare da questo scandalo dei cuoricini.
Quindi Cathy La Torre avrebbe detto allo scrutatore che voleva verbalizzare la protesta per la grave discriminazione verso «le persone non binarie (come me)». Prima ancora che La Torre arrivasse alle storie successive, quelle in cui diceva «noi donne» (l’identità è fluida, sciocchi: perché vi stupite), lo scrutatore già l’aveva sfanculata. Cafone. Ma non finisce qui: La Torre promette querela. Lo scrutatore l’avrebbe diffamata dicendole «pazza». Ha quindi diffamato quella della storia «noi donne», non quella non binaria, se ho capito bene come funzionano le lingue romanze.
Spero che prima o poi questa obiezione trovi ascolto e le file vengano formate per ordine alfabetico: non vedo l’ora di leggere post e storie e tweet su come la divisione A-L M-Z discrimini i dislessici che non sono in grado di capire in che gruppo sia il loro cognome, e minacce di denunce di coloro che saranno passati a militare contro questo nuovo sopruso.
(È comunque inspiegabile che negli schemini di Instagram non fosse segnalata la posizione dei partiti rispetto alle lentezze della giustizia da eccesso di fascicoli e di cause a casaccio, un problema che a ogni fisima elettorale mi appare più chiaro).
L’attivista di Twitter Tomaso Montanari – ormai cinquant’anni e quindi più nessun margine di miglioramento – intanto fotografava la protesta che aveva costretto gli scrutatori a mettere a verbale, quella contro la legge elettorale. Gli attivisti social solidarizzano con chiunque, tranne che coi poveri lavoratori dei seggi costretti a gestire i vanesi capricci degli attivisti.
Non sono solo loro, eh. È un contagio di militanza sempre e solo sulle cazzate. Il loro pubblico, pur di piacere al proprio beniamino, è lieto di dire che adesso farà verbalizzare la protesta contro la legge elettorale anche lui (altri scrutatori che bestemmiano), o – ancor meglio – di sentirsi perseguitato. Scrive di temere, ora che ha vinto la Meloni, che il figlio sì e no nato diventi gay e la Meloni corra a portarglielo via. Impegnata come sarà a occupare la Rai e le ferrovie e il resto, cara Vongola75, non ha tempo per la tua prole potenzialmente busona. Il tuo beniamino però non te lo dirà: Vongola75 ha diritto a sentirsi al centro dell’attenzione in quanto potenzialmente perseguitata, e da perseguitata ha il diritto e il dovere di continuare a cuoricinare il suo beniamino.
Magari si trattasse solo di star di Instagram e relativi fan. Il contagio si estende. La scrittrice Chiara Tagliaferri racconta su Instagram che un prete (ve l’ho detto che questo paese l’ha rovinato Fellini) nel suo seggio avrebbe irriso qualche elettore nella fila sbagliata, coi documenti che riportavano un sesso che non corrispondeva a ciò da cui si era travestito (in neolingua: qualche persona in transizione), con le parole «a saperlo andavamo a Casablanca». È un’epoca di intellettuali che ritengono che una battutaccia sia più grave della povertà, più grave delle mancate diagnosi nella sanità pubblica, più grave delle bollette che non puoi permetterti di pagare, più grave del dover aspettare anni per una sentenza perché i tribunali devono smaltire prima tutti gli esibizionisti delle querele.
È anche un’epoca piena di tic lessicali, per cui se glielo dici, che ci sono gerarchie di gravità, vieni accusato di «benaltrismo». I diritti, ti spiegano con la cantilena di chi usa frasi che suonano bene senza interrogarsi sul loro senso, non sono una torta: se dai una fetta a qualcuno non la levi a qualcun altro. Eh, no, pulcino: le risorse sono una quantità finita, e i diritti per tutelare i quali non allochi risorse non sono diritti, sono cuoricini di Instagram. Speriamo capiscano la differenza tra la vita e Instagram prima di salire in montagna: lo sapranno che, mentre sono nascosti da qualche parte a organizzare la resistenza, non devono geolocalizzarsi negli autoscatti?