Victim blamingIl grande equivoco sull’ideologia anti ebraica di Hamas

Le azioni del gruppo terrorista palestinese non sono una reazione alle politiche di Israele, ma il frutto di un profondo convincimento contro gli ebrei

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Uno dei grandi equivoci del dibattito e dei numerosi tentativi di contestualizzazione che si leggono in queste settimane sull’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre è l’idea che debba esistere un nesso causale tra le politiche dei governi israeliani e l’adozione di metodi violenti da parte di Hamas. È anche lo stesso equivoco che spinge numerosi attivisti della self-professed global left (copyright David Grossman e altri) a rifiutare l’accusa di antisemitismo nel momento in cui giustificano come resistenza legittima il massacro avvenuto al confine con Gaza.

Ciò che hanno in comune queste letture degli eventi – da un lato, il concetto secondo cui Israele ha costretto Hamas a comportarsi così in virtù delle politiche repressive del governo in Cisgiordania, e dall’altro, la conseguente descrizione delle azioni di Hamas come resistenza – è il totale rifiuto di vedere il radicato sentimento anti-ebraico che esiste nel movimento nazionale palestinese di matrice islamica di cui Hamas è interprete principale. Se non esistesse l’occupazione della Cisgiordania, è la sintesi, cesserebbero di colpo i motivi del terrorismo. Nessuna ideologia pare essere ascritta ai resistenti, solo la volontà di non avere l’occupante israeliano nei Territori occupati dopo il 1967.

Questa lettura è avallata da una grande fallacia logica del nostro tempo, che aleggia sulla discussione intorno alla questione israelo-palestinese da sempre: se i movimenti palestinesi adottano il terrorismo come metodo di offensiva, allora dev’esserci una ragione che trae origine nelle scelte di Israele.

Al netto del fatto che ci troviamo probabilmente di fronte al più grande manifesto di victim-blaming della storia, questa lettura ignora completamente due fatti storici irrimediabilmente legati: il primo è che la reazione araba alla partizione della Palestina mandataria nel 1947 non è mai stata motivata dalla volontà di costruire uno Stato palestinese indipendente, quanto piuttosto dalla volontà di impedire qualsiasi costruzione nazionale ebraica in Medio Oriente (con buona pace della sorte degli arabi presenti sul campo, strumentalizzati ampiamente a questo scopo); il secondo, più profondo e largamente ignorato anche nel dibattito degli esperti, è che il concetto stesso di autodeterminazione nazionale ebraica contraddice secoli di subordinazione degli ebrei nel Medio Oriente arabo e musulmano, tramandata attraverso i mellah (quartieri ebraici) del Nord Africa, le violenze di massa, l’istituzionalizzazione di un sistema di subordinazione ai danni delle comunità ebraiche mediorientali. 

Alla luce di questi elementi il conflitto israelo-palestinese non è un semplice scontro contro l’occupazione, secondo la lettura di alcuni occidentali, ma qualcosa che trae linfa più in profondità nella storia mediorientale, che è stato sapientemente strumentalizzato a fini politici dall’islamismo e che trova le sue radici anche nella condizione di dhimmitudine cui i non musulmani erano sottoposti in Medio Oriente: non una condizione di protezione, come indicherebbe la parola dhimmi, quando una condizione di subordinazione legalizzata, di minoranza tollerata fin tanto che non assumeva il controllo del proprio destino, pena l’essere oggetto dell’arbitrario umore delle masse o dell’autorità politica.

La narrazione secondo cui prima del 1948 gli ebrei in Medio Oriente vivevano in pace con la maggioranza araba e musulmana è stata ampiamente smentita dai fatti: per secoli gli ebrei mediorientali, abitanti nel Maghreb e nel Mashrek da prima che venisse colonizzato dagli arabi, hanno subito violenze variabili a seconda dell’epoca e del contesto. Tale subordinazione, infine, viene sublimata con la nazionalizzazione dei popoli del Novecento e con l’influsso dell’ideologia fascista e nazista in Medio Oriente.

Dunque, se da un lato è vero che l’antisemitismo è un prodotto europeo, il sentimento anti-ebraico non è stato impiantato con la contesa territoriale successiva alle guerre arabo-israeliane. Ciò non significa che non esistessero diversi esempi di convivenza pacifica, naturalmente, ma ritenere – come fanno gli antisionisti – che la «decolonizzazione» della cosiddetta «entità sionista», il «we don’t want two States, we want 48» cantato nei campus dell’Ivy League non sarebbe un progetto intrinsecamente pericoloso per gli ebrei anche solo dal punto di vista concettuale è un affronto alla storia non soltanto degli ebrei europei, ma anche di quelli mediorientali che furono espulsi o fuggirono in massa a metà del secolo corso verso Israele, gli Stati Uniti o l’Europa per il solo fatto di essere ebrei.

Anche per questo le sorti d’Israele coinvolgono così intimamente il mondo ebraico, e anche per questo la contestualizzazione a senso unico agevola un clima di odio che si riverbera ben oltre i confini di quella terra incapsulata tra la riva occidentale del Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa realtà non spiega tutto (le spiegazioni mono-causali sono spiegazioni sbagliate, diceva il mio professore di relazioni internazionali), e certamente non è una generalizzazione che può essere applicata a un intero popolo (processo mentale sbagliato di per sé).

È tuttavia una delle realtà con cui si confronta uno Stato ebraico circondato da movimenti che uniscono islamismo e nazionalismo con lo scopo di cancellare gli ebrei, e che farebbero bene a considerare anche quei detrattori di Israele che, invocando il diritto alla frase avversativa dopo la sbrigativa solidarietà alle vittime israeliane, alimentano una strisciante minimizzazione delle azioni di Hamas. D’altronde, come ha affermato Harel Chorev, ricercatore in Palestinian society and politics del Moshe Dayan Center, in un recente colloquio con il quotidiano Haaretz, non è un caso che Hamas stesso – che lui stesso definisce un movimento «islamofascista» – usi la parola «ebrei» in riferimento al proprio nemico, e non certo «israeliani».

Come ha scritto uno dei massimi storici della Shoah, Georges Bensoussan, in un brillante libro edito da Giuntina dal titolo Gli ebrei del mondo arabo. L’argomento proibito, «generalmente si pensa che il mondo ebraico in terra araba abbia avuto fine con il conflitto israelo-palestinese. In realtà quel naufragio era stato preparato molto tempo prima, quando le società ebraiche avevano iniziato ad allontanarsi dal loro ambiente come conseguenza di un timido processo di occidentalizzazione. L’esistenza ebraica, una volta emancipata di fatto, anche se non di diritto, ben presto fu vista dalle popolazioni arabe come un impedimento a essere. Ma per la coscienza post-coloniale, che nel mondo arabo-musulmano vuol vedere la figura dell’oppresso, è difficile concepire che, intorno al Mediterraneo, quel mondo un tempo colonizzato fu anche, ben prima dell’arrivo degli europei, sinonimo di servitù e schiavitù». Appunti anche per la self-professed global left.

 

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