Roy ChenIl teatro è la mia sinagoga, la mia chiesa, la mia moschea

«I popoli sono più importanti dei loro politici», spiega il direttore artistico del festival “Israele: tradizione e creatività. Energie da Tel Aviv” al Teatro Parenti di Milano. L’arte nei giorni del trauma, come «diritto dell’uomo laico alla spiritualità»

Chen con Andrée Ruth Shammah
Chen con Andrée Ruth Shammah (foto Teatro Franco Parenti)

La vendetta è un sentimento umano. «Netanyahu è un criminale che ha distrutto il suo popolo», ma ci sono momenti storici in cui «i popoli sono più importanti dei politici», dice a Linkiesta il drammaturgo israeliano Roy Chen. È il direttore artistico del festival voluto da Andrée Ruth Shammah “Israele: tradizione e creatività. Energie da Tel Aviv”, da martedì al Teatro Parenti di Milano. Risentirà del «trauma», della guerra, è inevitabile. Quando le muse tacciono, racconta lo scrittore, l’arte risponde a un diritto laico alla spiritualità: «Non il dio di cui parla Hamas quando uccide i bambini, o quello del “Terzo Tempio” degli ebrei religiosi».

Lei e la sua famiglia state bene?
«Noi sì, molta gente che conosco no. Qualcuno è stato ucciso, ferito, rapito. Tel Aviv è una città aperta, libera e democratica. La sua energia oggi è diversa. Tutto mi sembra diverso. Vado a leggere ai bambini la mia traduzione di “Winnie the Pooh”, un classico scritto in un altro tempo, ma ogni parola può aprire la porta al trauma in cui siamo, nel mezzo. Non siamo post-traumatici, siamo “traumatici”. Ci siamo dentro. La guerra è intorno a noi, continua: ogni giorno, ogni ora sentiamo le notizie per sapere se c’è la gente che conosciamo tra le vittime».

Quale missione avrà la rassegna in un periodo come questo?
«Abbiamo scelto spettacoli da un lato molto locali, dall’altro totalmente internazionali. Il teatro dà grande speranza, è l’ultima a morire, no? Voglio credere che c’è. Personalmente ci sono momenti in cui non ci credo: quando sento le storie orribili, di questi subumani di Hamas, smetto. Ma mentre parliamo sono nel mio teatro, Gesher, che significa “ponte”. Lavoro qui da diciassette anni. Per me il teatro è sempre stato un luogo dove scappare dalla realtà, guardarla da lontano, per capire che è collettiva. Non possiamo farlo da soli: senza pubblico e incontro non c’è teatro. È l’unico posto dove comincio a ricordarmi che siamo uomini e possiamo fare altre cose insieme, non solo la guerra».

Il programma del festival parla della «capacità di guardare sempre avanti, di sopravvivere e di saper ricominciare da capo» della comunità ebraica. Sarà possibile dopo sabato scorso?
«Il popolo ebraico ha dimostrato che è possibile, ma in questo momento è molto difficile capire come. Come possiamo guardare negli occhi i bambini che hanno perso i genitori? Bashevis Singer ha chiesto come possiamo amare dopo l’Olocausto? Il mondo ha dimostrato che possiamo, anche durante. Lo scorso giugno ho incontrato il Papa alla cappella Sistina: ha detto, cito a memoria, che l’artista è come un bambino. Mi sembra, anche a quarantatré anni, che qualcuno abbia tagliato la mia infanzia. Mi piacciono le maschere, a volte sono più autentiche della nostra faccia. Ma sento che qualcuno ha tagliato la mia maschera, forse per sempre».

Lo scrittore israeliano Roy Chen
Roy Chen | Teatro Franco Parenti

Il 17 dicembre incontrerà il pubblico italiano.
«Come possiamo parlare della letteratura, l’arte, il teatro? Ma d’altra parte questi sono gli unici argomenti di cui possiamo parlare. Dopo la guerra, solo di questo: non questo dio di Hamas quando uccidono i bambini, o quello del “Terzo Tempio” degli ebrei religiosi. Parliamo di dio come le nostri radici spirituali. Anche un uomo secolare ha diritto ad avere una vita spirituale, questa è l’arte. Il teatro è la mia sinagoga, la mia chiesa, la mia moschea, insieme. I testi sono le mie preghiere».

Nel suo intervento sulla Stampa ha descritto un «governo delirante e sciovinista» e, dall’altra parte, i «soldati dell’arte», come lei. Qual è il loro ruolo ora?
«Quando i cannoni ruggiscono, le muse tacciono. È vero: in questo momento non riesco a scrivere neanche una parola, non posso immaginare uno spettacolo, ma parlare di domani è molto importante. Se vogliamo essere qui, domani, dobbiamo pensarci oggi. La vendetta è naturale: è una voglia naturale. La guerra è guerra, ha una legge. Hamas non conosce la legge della guerra. Uccidere i cittadini così, rapirli, è troppo. Per questo il mondo dovere urlare, piangere, deve dire qualcosa. Ma anche noi dobbiamo fare più di quanto abbiamo fatto sino a oggi».

Come?
«Benjamin Netanyahu per me è un criminale che ha distrutto il suo popolo, lo ha diviso. Ci sono momenti nella Storia in cui il popolo è più importante dei suoi politici. Adesso devono lavorare per noi: liberare gli ostaggi, riportarli a casa. Capire che non è possibile e non è umano eliminare un popolo intero, che si chiama popolo palestinese. Dobbiamo, allo stesso tempo, capire che Hamas non è il popolo palestinese, è una parte, forse abbastanza grande, ma sono sicuro che nella striscia di Gaza c’è gente che crede che non è umano uccidere i bambini. Allora dobbiamo combattere Hamas e l’obiettivo più grande è il giorno di domani, di dopodomani, tra un mese. Vivere – se vogliamo vivere qui, in questo Paese – con i nostri vicini, con noi stessi, insieme. Anche adesso che lo dico ad alta voce, mi rendo conto quanto siano lontani tutti questi pensieri. Provo a pensare alla vita, non alla morte, ma è difficile perché intorno a me c’è la morte».

Nel suo testo raccontava una paura stridente: a qualche giorno di distanza, la paura prevale ancora?
«C’è una ragazza molto vicina a me, con cui lavoro. I suoi due figli sono stati uccisi e una zia è a Gaza, adesso. Provi solo a immaginare: tua sorella, mamma, figlia, che è stata a una festa la notte, e alle sette, alle otto, la mattina è in un tunnel a Gaza, con cinque terroristi intorno a lei. È insopportabile. Non è un soldato. Possiamo parlare per l’eternità di Gaza, della Storia, ma dopo l’Olocausto non c’era stato un giorno in cui sono stati uccisi così tanti ebrei come quel sabato. Dobbiamo rifletterci tutti. Vogliamo tacere o dire qualcosa?»

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