Come ogni anno l’appuntamento con la Nota di Aggiornamento al Def (NaDef) assomiglia a un’opera teatrale complessa e tormentata, spesso appassionante, fatta di speranze, illusioni, rimpianti e rinunce, contraddizioni e tradimenti di promesse. Come sempre dice molto anche del Governo che l’ha varata, della sua impostazione politico-culturale, delle sue debolezze, del modo in cui concepisce l’economia e la finanza pubblica. Questa è la prima vera NaDef del Governo di Giorgia Meloni, visto che quella di un anno fa era stata ricalcata su quella varata da Mario Draghi, ed è interessante, appunto, per comprendere come questo esecutivo immagina il presente e il futuro.
Per quanto riguarda l’anno corrente, il 2023, ha fatto un atto di realismo, stimando una crescita del Pil dello 0,8 per cento, persino più bassa di un decimale di quella prevista dalla Commissione Europea solo poche settimane fa nella sua Summer Forecast. Si tratta in un certo senso di un ritorno alla routine pre-Covid, che era stata interrotta dal periodo pandemico, caratterizzato da un’enorme incertezza aggravata poi dall’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2020, 2021, 2022 gli esecutivi italiani si erano dimostrati più ottimisti di Bruxelles, e i fatti, bisogna darne atto, avevano dato loro ragione visto che l’aumento effettivo del Pil era stato più vicino a quello previsto da Roma.
I tempi ora sono cambiati, stiamo tornando, dopo il rimbalzo dell’economia e la bolla dell’edilizia, al vecchio copione, fatto di bassa crescita, spesso inferiore alle attese, agli zero virgola, alle docce fredde sulle illusioni dei presidenti del Consiglio e dei loro ministri. E forse anche per scacciare questi fantasmi per la prima volta da quando la Commissione europea stila le Summer Forecast, il 2018, il Governo vede un aumento del Pil dell’anno successivo migliore di quello previsto dalle istituzioni di Bruxelles. Per Palazzo Chigi crescerà dell’uno per cento e non dello 0,8 per cento come pensano gli economisti della Commissione Ue. In passato, invece, l’esecutivo era stato più pessimista di questi, immaginando aumenti del Pil decisamente inferiori, sia durante i momenti di grande incertezza (l’esempio delle stime del 2020 sul 2021 è esemplare), sia in quelli meno movimentati. L’anno scorso, per esempio, la NaDef aggiornata da un Governo Meloni nuovo di giuramento nel bel mezzo della fiammata inflazionistica, quando i prezzi aumentavano di più del dieci per cento, vedeva per quest’anno una crescita solo dello 0,3 per cento, contro una previsione dello 0,9 per cento della Commissione di pochi mesi prima.
Naturalmente è già molto difficile comprendere quale sarà l’aumento del Pil dell’anno in corso, e si rischia di sbagliare, e non di poco, anche se mancano pochi mesi alla sua fine, e a maggior ragione è quasi proibitivo riuscire a prevedere quello dell’anno successivo. Tuttavia qui il tema non è l’affidabilità delle previsioni, ma la discrepanza tra la visione della realtà dell’esecutivo e quello della Commissione Europea, così come quella di altri organismi, considerando che anche il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca d’Italia stimano un’espansione inferiore all’uno per cento nel 2024.
Tra l’altro questa crescita è quella tendenziale, ovvero senza alcun intervento di finanza pubblica, quella, in un certo senso, naturale. Significa che dalle parti di Palazzo Chigi i fondamentali della nostra economia sono giudicati essere più sani di quel che pensano gran parte degli economisti del mondo. Uno 0,2 per cento può sembrare poco, ma si tratta pur sempre di circa quattro miliardi di euro. Significa immaginare di avere a disposizione più risorse, più spazio di manovra per la spesa pubblica e anche un denominatore maggiore per un altro indicatore fondamentale, il rapporto debito/Pil.
Forse anche da qui trae origine questo ottimismo un po’ forzato, dal tentativo di migliorare un po’ le prospettive del nostro indebitamento, di compensare l’effetto del Superbonus, che ci costringe ad avere un deficit e un debito maggiore di quelli sperati. Eppure tale ottimismo non sembra produrre grandi effetti. Il rapporto tra debito e Pil programmatico, ovvero dopo la manovra economica, è solo dello 0,2 per cento migliore di quello previsto dalla Commissione Europea in primavera, 140,1 per cento contro 140,3 per cento. E questo avverrebbe con una crescita economica programmatica, ovvero quella immaginata da Palazzo Chigi come effetto delle misure che verranno varate nella legge finanziaria, di ben l’1,2 per cento. Sembra ben poco.
Vi è probabilmente il tentativo di mostrare che, come nei due anni precedenti, alla fine le cose andranno meglio del previsto. E visto che da sole le scelte di bilancio non basterebbero a raggiungere un debito migliore di quello stimato a Bruxelles allora a dare man forte viene aggiunta una previsione rosea del Pil. Si spera forse che le cose vadano in piccola parte come con la NaDef 2022, in cui era stato stimato un rapporto debito/Pil più basso dello 0,6 per cento di quello immaginato nel Spring Forecast europeo della primavera di alcuni mesi prima. Tale previsione si accompagnava per giunta a stime della crescita dell’economia molto prudenti, addirittura peggiori di quelle della Commissione, eppure i dati reali hanno premiato questo ottimismo. Tutto ciò è stato possibile perché nel frattempo abbiamo goduto di una congiuntura migliore di quella immaginata nel corso del 2022. Succederà anche oggi? Probabilmente no.
I tempi sono cambiati, appunto, sta tornando la stagnazione pre-Covid, quella che imponeva ai governi di prevedere un debito pari o più alto di quello stimato a Bruxelles. Previsione che, tra l’altro, nasceva da un’altra, coerente, quella di una crescita del Pil più bassa di quella contenuta nelle Summer Forecast della Commissione. Si era visto con la Nadef del 2018, per esempio, quella varata dal Governo gialloverde, che vedeva un rapporto debito/Pil dello 0,3 per cento minore di quello incluso nelle stime europee e che era parallelo e in un certo senso nasceva da quella di una crescita dello 0,2 per cento inferiore alla crescita immaginata dall’Unione Europea.
Oggi il Governo Meloni sembra voler osare anche più del Conte I, permettendosi il lusso di essere per la prima volta più ottimista di Bruxelles, fa una scommessa contro il ritorno alla crescita zero virgola. Appare un azzardo, in assenza di vere politiche di sviluppo, e che rischiamo di pagare tutti, perché la credibilità è un capitale importante quanto quello monetario, anche se in Italia spesso lo svalutiamo.