Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei. Capita d’entrare per la prima volta a casa di un amico o un’amica, anzi meglio: di un amante, perfino d’un collega, e subito l’occhio cade sulla sua libreria. Questo, almeno, nel caso fortuito in cui le mensole non servano come piano d’appoggio per vasi, quadretti e fotografie. Fatto sta che, più di qualsiasi profilo social, farsi un’idea di una persona attraverso i gusti letterari che ha maturato nel tempo, pur se fasciata dalla consueta vaghezza che avvolge questi piccoli subdoli trucchi, è un’operazione divertente. Spesso illuminante. Ma vengo al punto: in pochi sanno che la biblioteca della scrittrice, Natalia Ginzburg, che negli ultimi anni sta rivivendo – e la gioia! – una nuova seconda vita, così tanto citata discussa e riletta, si trova in un paesino sperduto fra la conca delle montagne aquilane: Pizzoli.
Dopo il revival di cui nel 2019 ha scritto perfino il New Yorker, dopo gli elogi che Sally Rooney ha fatto di “Tutti i nostri ieri”, dopo che Natalie Portman si è immortalata con lo stesso romanzo e dopo che su Instagram ha parlato di “Le piccole virtù”, oggi anche Nanni Moretti sceglie lei, fra gli altri, per la sua prima regia a teatro. In scena, al Carignano di Torino, ci sono due commedie che non calcavano il palco da tanto tempo: “Fragola e panna” e “Dialogo”.
Cosa c’era sui ripiani di Natalia Ginzburg? Molta letteratura d’oltreoceano. Più di quella italiana. Per la verità, affiancata da un po’ di tutto: saggi, teatro, racconti per l’infanzia e poesia. La biblioteca comunale “Leone e Natalia Ginzburg” si trova nel paese dove l’autrice visse gli ultimi giorni della sua vita in famiglia. Anche se questo, all’epoca, lei non poteva saperlo. Ma lo sa bene chi la ama da sempre, e chi dunque non può non conoscere uno dei suoi scritti più felici e struggenti: “Inverno in Abruzzo” che apre la raccolta di “Le piccole virtù”.
Pieno di meraviglia, in “Addio alle armi”, Hemingway ha scritto che in Abruzzo «le strade sono gelate e dure come il ferro e che il freddo è sereno e asciutto, e la neve asciutta e farinosa». Col solito piglio severo, invece, dentro cui vibra una vena quasi polemica, Ginzburg attacca: «In Abruzzo non c’è che due stagioni: l’estate e l’inverno. La primavera è nevosa e ventosa come l’inverno e l’autunno è caldo e limpido come l’estate». Un ciclo lento e monotono, come lo è la sua prigionia al confino. Si trova lì, a Pizzoli, lontano dalla vivacità del mondo fino a quegli anni frequentato, lontano dalle promesse o dalle voci e dalle occasioni di una grande città, così distante dai parenti e dagli amici, perché il marito, Leone Ginzburg, è stato spedito al confino in quanto pericoloso antifascista ed ebreo. Quanto dovrà restare fra quelle vette? Nessuno lo sa. Ma Ginzburg se lo chiede ogni giorno.
Ciò che sempre mi stupisce della scrittura è questa sua capacità, al netto del talento, di accogliere la grazia anche là dove di grazia non vi è seme. Immaginiamo una perdita. Dopo quella di un figlio, la più irreparabile e la più lancinante.
Il marito di Natalia Levi torna a Roma, viene incarcerato e poi ucciso. Trascorrono pochi mesi e Ginzburg impugna l’arma che da quando è piccola sa padroneggiare meglio di altri, l’arma di cui è ostaggio – «questo mestiere», scrive, «è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna» – e si spinge nel luogo dell’infelicità. Deve però riuscire a mettere una distanza. Deve stringere i denti, asciugare il sangue di una ferita appena aperta e, solo in seguito, restituirci il quadro di chi non sa. Sceglie così una forma verbale che può fare da scudo. Il racconto è del 1944, non è passato neppure un anno, ma attraverso il passato remoto che lei usa fino al finale, abbiamo l’illusione di trovarci in un posto lontano, lontanissimo: la geografia di un dolore quantomeno un po’ attutito dal tempo. Ginzburg racconta di quanta tristezza ci fosse in quelle passeggiate serali in cui le vecchie sdentate del paese la sgridavano perché lei, ostinata, portava i figli con sé. Nel gelo. In mezzo alla neve. Con le montagne tutt’attorno a impedire lo sguardo. Non una lettera per sapere cosa stesse accadendo a Roma, o in Italia. Quando la guerra avrebbe avuto fine. Quando sarebbe finito il suo strazio. Sdraiata nel letto, con la testa al soffitto, osserva il dipinto di un’aquila dalle grandi ali. Chiude gli occhi. Sogna di volare via come quell’uccello. E poi, ecco: la grazia e il talento. L’esilio scomodo, infelice, pieno di polvere, penuria e fuliggine, intirizzito dal vento gelido, è invece l’inverno più bello. Lo scopriamo non appena dal passato remoto, in un colpo di coda e di stupore, Ginzburg ci precipita dentro il futuro: «Ma era quello il tempo migliore della mia mia vita, e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so».
Cesare Garboli riconobbe in lei un’intelligenza diversa. Un tipo di lucidità viscerale. «Un’intelligenza femmina», scrisse di Ginzburg per marcare la distanza dal raziocinio privo delle calamitanti intuizioni di cui era capace lei, criticata da vari colleghi per quel suo tratto naif. Primitiva e fintamente spontanea e semplice attraverso mille artefici, in quel suo «cucinare parole», lo era di certo. È qui, la forza. Un universo di fraseggi concreti, via ogni inutile svolazzo. Facce, fatti, oggetti. E sentimenti vivi restituiti con la levità di un bambino. Un lessico sempre più familiare perché riconoscibile al primo sguardo: quel tono asciutto, quella metrica sfrondata e austera, nessuna sovrabbondanza di echi o di brusii. Se Ginzburg fosse una libreria mai vista prima su cui posiamo con distrazione lo sguardo, diremmo: è lei! Come possiamo fare aprendo una qualsiasi delle sue pagine, fra le storie di memoria, fra gli articoli e i saggi. Perderci in questa musica singolare e nelle viscere femminee che l’hanno prodotta, per fortuna ancora, e fino a quando vorremo.