Mal di mareLa riforma dei porti italiani è in sospeso da trent’anni

Il cambio di normativa è bloccato tra la speranza di fare dell’Italia l’hub europeo del Mediterraneo e l’incapacità di sottrarre potere alla politica locale

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Chi ha paura della riforma dei porti italiani? Domanda non da poco visto che, certificano i dati di Srm – centro studi collegato al gruppo Intesa Sanpaolo e specializzato, tra l’altro, in maritime economy – l’insieme della logistica marittima vale il nove per cento del nostro Prodotto interno lordo, ha mosso nel 2022 490,1 milioni di tonnellate di merci, 61,3 milioni di passeggeri, di cui nove milioni di crocieristi, e che passa dai nostri porti il quaranta per cento del totale del nostro import-export: parliamo di trecentosettantasette miliardi di euro.

Ma nonostante questo qualcuno che ne ha paura ci deve per forza essere se il prossimo anno si celebreranno i trenta anni dalla riforma del 1994, una normativa così arretrata che la sua inadeguatezza è arrivata perfino alla Treccani, che non è esattamente un luogo in cui si parli di fatti di cronaca (non è una voce dell’enciclopedia ma un capitolo del libro dell’anno del diritto 2016, ma fa lo stesso). Insomma, l’Italia ha un problema di porti ma la politica non riesce a risolverlo.

Il fatto è che il Paese, con i suoi ottomila trecento chilometri di costa, conta almeno cinquantotto porti commerciali principali, ossia dove si svolge un’attività economica basata principalmente sul traffico di merci e passeggeri: stiamo parlando di una media di tre porti a regione, comprese Val d’Aosta, Umbria e Trentino Alto-Adige. Da questi primi numeri si può già intravedere quell’intreccio di politica locale, enti territoriali e interessi nazionali che in Italia già da tempo dà il peggio di sé in molti settori, dalla sanità alle politiche ambientali.

Perfino questo governo era partito con gran dispiego di energia. Giusto un anno fa, appena insediato, ha istituito il Cipom (Comitato internazionale per le politiche del mare) per favorire un maggiore raccordo sinergico tra funzioni dello Stato. È composto da dieci ministeri più un rappresentante della Conferenza delle Regioni, dell’Anci, ossia i Comuni, e perfino dell’Unione delle Province.

Per ora ha condotto un lungo ciclo di audizioni che ha prodotto un Piano del mare da cui dovrebbero scaturire l’individuazione delle priorità di una politica del mare e l’articolazione delle azioni conseguenti. Ma questo non ha impedito al Mit, il ministero dei Trasporti, di istituire un Gruppo di lavoro, con il compito di impostare il disegno di legge su cui avviare l’iter di riforma. Ma sarebbe comunque una legge delega: i contenuti verrebbero definiti dopo. Neanche il Parlamento è stato a guardare, e presso la IX Commissione della Camera sono state presentate tre diverse risoluzioni (Ghio, Frijia e Traversi, un Pd, un Fratelli d’Italia e un Cinquestelle, ma tutti e tre liguri) che hanno dato il via a un ennesimo ciclo di audizioni con i soggetti più rappresentativi (associativi e istituzionali) del cluster della portualità.

Su tutto questo poi aleggia uno spettro che spiega in gran parte il problema. Per molti la riforma dei porti non è altro che la loro privatizzazione. Che non significa necessariamente venderli ai privati, ma che può anche limitarsi a mettere il concessionario pubblico in un ruolo di controllo e regolamentazione lasciando ai privati la gestione.

Come d’altronde avviene con autostrade, aeroporti, acquedotti e tutte le infrastrutture non replicabili, ossia i monopoli naturali. Già il tentativo di riforma Del Rio del 2016 (ministro dei Trasporti dei governi Renzi e Gentiloni) aveva provato a mettere ordine, ma arretrando poi alla solita soluzione di compromesso: le autorità portuali da ventitré che erano dovevano diventare sei, ne sono rimaste sedici. Dovevano avere più autonomia gestionale, sono state disegnate come «enti pubblici non economici», e tra poco si vedrà quanto questa definizione sia una parte non piccola del problema.

In più c’è che adesso i porti sono i destinatari di una bella fetta di miliardi europei del Pnrr: esattamente 9,2. Soldi che devono essere spesi entro il 2026. Circa un quarto di questi fondi vanno a migliorare l’accessibilità del traffico marittimo, con ristrutturazioni e dragaggi di fondali per poter ospitare navi più grandi. Un altro quarto va ad un ulteriore ampliamento della capacità. Ma questi due fattori potrebbero non essere quelli di cui i porti italiani hanno oggi maggiore bisogno, perché il rischio qui è più che altro di una sovracapacità. Il traffico container mondiale è su livelli stazionari.

Dopo il boom del Covid è tornato a muoversi in un senso o nell’altro di non più di un due per cento l’anno e l’andamento globale dei noli al ribasso indica che in questa fase la domanda è in fase calante. L’economia italiana se si muove attorno all’uno per cento è un ottimo risultato. Negli ultimi dieci anni i volumi di merci movimentate nei porti italiani sono rimasti sostanzialmente stabili. E, secondo stime condivise tra gli addetti ai lavori in mancanza di un dato ufficiale, l’ottanta per cento delle merci che arrivano nei porti italiani restano in Italia.

Quindi: se si vuole far crescere i volumi di merci movimentate in Italia non c’è che una strada, ossia toglierle ai nostri competitor. Che sono gli altri porti europei sul Mediterraneo, quelli del Nord Africa e quelli della Turchia. E fare concorrenza ai porti tedeschi, olandesi e belgi, ossia i numeri uno del continente, per far arrivare da noi più merci da trasportare poi oltre le Alpi. E qui arrivano i problemi. Perché i porti italiani sono inefficienti. O meglio: hanno una struttura e una governance che è la negazione di qualsiasi forma di efficienza, come vanno denunciando da anni i maggiori stakeholders del settore, dagli armatori ai terminalisti, dagli agenti marittimi alle società del trasporto merci.

Come si diceva, il traffico mondiale delle merci ha una sua stabilità e a determinare la crescita o il declino di uno scalo sono i terminalisti e gli armatori, ossia le società specializzate in logistica portuale e chi fa viaggiare le navi: soggetti che, tra l’altro, stanno sempre più andando a coincidere, come dimostra il caso di Msc, il gruppo armatoriale della famiglia Aponte che gestisce ormai il quaranta per cento del traffico dei terminal portuali italiani.

Insomma è il terminalista che decide di quello che si potrebbe definire “l’ultimo miglio di una rotta”. Da quando nel 2016 l’armatore cinese Cosco ha preso la gestione del porto greco del Pireo, il traffico container è raddoppiato già del primo anno. Nel 2015 l’armatore taiwanese Evergreen lasciò il porto di Taranto, dove gestiva il terminal container perché in dieci anni, la cosa inizia nel 2005, non era riuscita a far realizzare il dragaggio dei fondali per permettere l’attracco delle portacontainer di maggiore dimensione. Il dragaggio doveva essere realizzato dall’Autorità Portuale che non fu in grado di farli.

Provò a occuparsene la stessa Evergreen, pagandoli di tasca propria, ma fini sotto inchiesta da parte della magistratura pugliese con l’accusa di aver svolto i lavori nel suo esclusivo interesse e non in quello del concedente, ossia lo Stato. Risultato: il terminal tarantino è di fatto vuoto di container e sul dragaggio dei fondali si susseguono ordinane impegni e rinvii. «C’è una enorme dispersione di competenze e funzioni», spiega il direttore di Assiterminal Alessandro Ferrari.

Per decidere ad esempio un dragaggio bisogna sentire la Regione, poi tutti gli enti preposti all’ambiente, le Arpa, in alcuni casi anche la Provincia. E comunque aggiunge Ferrari: «Le normative ovvero le loro interpretazioni sono anche diverse da porto a porto. Solo per fare un esempio nel nostro Paese il traffico delle merci nei porti è soggetto a circa venti tipologie di controlli diversi decisi da una decina di Enti diversi. Questo crea incertezze per le imprese ma soprattutto allungamento dei tempi di carico e scarico delle merci: da noi prendono da tre a quattro volte i tempi richiesti per esempio ad Amburgo. Chiediamo lo sveltimento di questi tempi. O si può ottenere con una digitalizzazione spinta, armonizzando le norme e lasciando la gestione a soggetti diversi, o lo si può fare centralizzando le responsabilità, e quindi concentrando le competenze in meno Enti a livello nazionale. L’importante è che lo si faccia. Se si gestisce un dragaggio fondali come la costruzione di una nuova autostrada e non come una manutenzione ordinaria, si prende un iter autorizzativo lungo e che termina con procedimenti amministrativi dai tempi e esiti incontrollabili. Ma se si decide che i porti sono una infrastruttura strategica per il Made in Italy e per attirare traffico in Italia verso l’Europa bisogna cambiare registro».

È una privatizzazione questa? Se lo Stato si ritira dalla gestione diretta e si limita a dettare le norme e a istituire la vigilanza, allora sì e ben venga, perché normata e trasparente. Il problema è che la privatizzazione vera è già in atto. Con un gruppo come Msc che ha di fatto conquistato quasi la metà dei traffici e decide dove portare le sue merci: è stata in corsa fino a pochi giorni fa per la gara sulla concessione della grande piattaforma terminal della Darsena Toscana di Livorno e aveva iniziato a spostare da Spezia a Livorno una parte consistente delle sue portacontainer. Poi si è ritirata, per l’intervento dell’Antitrust che ha avanzato dei rilievi sulla sua proposta, e in pochi giorni il traffico è ritornato da Livorno a Spezia.

La politica portuale la fanno loro, ma perché riempiono un vuoto ed è la dialettica con il loro maggior concorrente italiano, Grimaldi, che garantisce l’equilibrio del sistema, con tutti i limiti. L’Autorità dei Trasporti non è ancora stata investita di questa vicenda. Per fortuna interviene, come si è visto, l’Antitrust. Che però opera solo a posteriori. Servono nuove regole. Ma chi andrà toccare il potere di interdizione della politica locale? E chi andrà a spiegare che non si possono disperdere le risorse su troppi scali quando di fatto quelli che servono a guadagnare quote di mercato in Europa sono soltanto due piattaforme, quella ligure in cima al Tirreno e quella formata da Trieste-Venezia.-Ravenna in cima all’Adriatico? Perché è là che comincia il resto d’Europa. E quelle due piattaforme, e solo quelle due, possono essere i veri terminali delle nuove autostrade del mare, non quelle che uniscono il nord e il sud dell’Italia (da questo punto di vista hanno pure ben funzionato) ma quelle che uniscono il nord e il sud del Mediterraneo.

La Germania ha solo tre grandi porti, Amburgo, Brema e Wilhelmshaven. Che di fatto sono una sola piattaforma, visto che da Amburgo a Wilhelmshaven ci sono duecento chilometri e Brema sta in mezzo. Loro il problema di disperdere le risorse tra più di cinquanta soggetti diversi non ce li hanno. E si vede.

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