Elly Schlein ieri alla Direzione del Partito democratico ha confermato la posizione a fianco della Resistenza ucraina e lo ha fatto anche con un tono più fermo del solito (è serpeggiato anche un applauso): «Noi stiamo con l’Ucraina, perché è impensabile che una nazione decida di ridisegnare i suoi confini con le armi». È una presa di posizione tanto più importante in quanto cade in una situazione nella quale a sinistra si rafforzano le posizioni che dietro lo schermo pacifista sono oggettivamente filorusse mentre nella maggioranza di destra emerge sempre più evidente una nuova freddezza per la causa ucraina.
Una freddezza formalmente negata da Giorgia Meloni che è costretta dalle alleanze internazionali dell’Italia a garantire sostegno a Volodymyr Zelensky, come ha fatto ancora ieri e che però non ha dissipato i dubbi sulle parole del ministro della Difesa che, dimentico del fatto di essere il ministro, parevano alludere a una soluzione coreana del conflitto fotografando l’attuale status quo sul terreno.
Si disegna dunque questa specie di tenaglia tra un pezzo della sinistra più radicale e una destra non insensibile al fascino dell’uomo forte (Vladimir Putin come anche Donald Trump) e a questa morsa il Pd intende giustamente sfuggire anche sfidando la crescente impopolarità nell’opinione pubblica del sostegno militare a Kyjiv. Detto questo, la Direzione di ieri non poteva non essere unitaria.
Non era infatti il momento per quella discussione strategica sempre fatta a spizzichi e bocconi e più sui giornali o nei corridoi che nelle sedi appropriate perché la fase non consente grandi riflessioni o polemiche con gli altri partiti dell’opposizione (mai citati dalla leader il Movimento 5 stelle né i centristi), giusto un richiamo a non considerare le elezioni europee come «un derby», anche se fatalmente lo saranno; ma si vedrà più avanti come ri-affrontare il nodo delle alleanze anche in considerazione del fatto che in primavera si voterà anche per diverse Regioni dove le intese sono indispensabili.
È naturale che la questione del rapporto con un Giuseppe Conte nei fatti sempre più lontano, dall’immigrazione all’Ucraina fino al rifiuto di fare asse sulla sanità, non è archiviata, solo che Elly vuole sottrarsi allo stillicidio delle provocazioni dell’avvocato puntando a fare, lei, politica, e non è detto che sia una tattica sbagliata. Ma soprattutto c’è il fatto che adesso si entra in quell’autunno caldo che richiede più iniziativa che discorsi (e incidentalmente va notato che Giuseppe Conte non si muove ma si limita alle chiacchiere): può non piacere ma lo spartito della politica detta questa musica.
E dunque Schlein ha fatto l’unica cosa che si può fare in questi casi: dettare un’agenda ai suoi militanti indicando un sbocco forte che sarà la manifestazione a Roma l’11 novembre. Bisognerà riempire una piazza grande, il che non è semplice, sfruttando l’abbrivio della manifestazione della Cgil: Conte ha detto che ci sarà «se lo invitano»: come se fosse una festa di compleanno.
In fondo quella del Pd è una parte facile, opporsi sostanzialmente da solo in tutti i modi e su tutti i terreni alle politiche del governo Meloni, dall’immigrazione al carovita al salario minimo, dove Schlein si sente forte non solo delle centinaia di migliaia di firme (la campagna continua, domenica 8 ottobre sarà un firma-day) ma anche dell’asse creato su questo tema con Giuseppe Conte e Carlo Calenda, sicché è pronta a dare tra pochi giorni battaglia in Parlamento scontrandosi con un governo che grazie al parere negativo del Consiglio nazionale dell’economia e lavoro (Cnel) si appresta a bocciare una proposta che il Pd ritiene non ingiustificatamente molto popolare.
Tra Parlamento e piazza dunque, dopo mesi di balbettamenti, diversivi e divisioni, il Pd sembra voler ritrovare l’uscita da quella specie di asilo infantile in cui in questo periodo spesso si è cacciato per dimostrare che non c’è solo un Governo con i suoi affanni e la sua retorica ma anche un’opposizione degna di questi nome. Non è molto ma di questi tempi non è nemmeno poco.