Nei primi Idilli (L’infinito, La sera del giorno festivo, La luna, Il sogno) Leopardi si espone nella semplicità di situazioni quotidiane: è seduto sul colle, è steso nel letto, guarda il cielo. Le parole di questo suo mondo elementare sono semplici: «siepe», «colle», «orti», «lampa», «luna», «selva», «balcone». Ma sono proprio queste parole che improvvisamente fanno nascere catene di pensieri che portano a dimensioni inimmaginabili, capaci di oltrepassare i limiti della realtà. Così avviene che la situazione di partenza, con quel mondo presente sotto i sensi, improvvisamente si cancella, è come se venisse superata e si aprisse una dimensione di realtà del tutto nuova. Ogni momento presente, cioè il presente di quegli oggetti che definiscono un mondo molto privato, viene risucchiato da una forza che lo fa entrare in una dimensione all’inizio impensabile. Questa dimensione è l’immaginazione come energia che sposta l’io.
Prendo un’idea dal filosofo di origine coreana Byung-chul Han, fortemente critico nei confronti della nostra società che attraverso la tecnologia ha smaterializzato il reale. Le informazioni che ogni giorno ci travolgono attraverso smartphone o Pc cambiano alla radice la nostra capacità di comprendere il mondo. Questo pensatore sostiene che gli esseri umani sono «creature della vicinanza», cioè noi abbiamo bisogno di interagire con qualcuno che è concretamente di fronte a noi, non possiamo abolire l’altro surrogandolo con la comunicazione digitale. È un’osservazione del tutto condivisibile. Però poi Byung-chul aggiunge che «la vicinanza non è eliminazione della distanza». Cerchiamo di capire. Se noi siamo creature che si confrontano da vicino, che anzi si devono confrontare da vicino, questo non esclude che noi possediamo anche il senso della lontananza. Diciamo che i nostri rapporti mediano sempre tra vicino e lontano. Se per esempio pensiamo a qualcuno che non c’è mettiamo in atto un pensiero della lontananza. E così se pensiamo a qualcosa che non abbiamo vissuto ma che vorremmo vivere e ci si presenta sotto forma di immaginazione. I sistemi digitali invece appiattiscono queste due dimensioni, ci tolgono la possibilità di pensare la distanza. Noi abbiamo l’impressione che tutto sia vicino e presente, solo perché lo vediamo sullo schermo di uno smartphone. Per questo lo spazio del nostro vivere può diventare uno spazio piatto, privo di dimensioni, dove tutto ci sembra presente e in realtà niente è presente.
Utilizzo questa suggestione non perché ci spiega qualcosa di Leopardi ma perché ci aiuta a capire come Leopardi conosca perfettamente il rapporto tra vicino e lontano. E soprattutto come l’immaginazione possa realizzare sempre un passaggio tra vicinanza e lontananza. Direi che ogni nostro pensiero reale (a cominciare dal pensiero amoroso) vive attraverso questo rapporto. E negli Idilli spesso questo rapporto spiega perché improvvisamente le sensazioni del presente vengono travolte dall’immaginazione che apre un varco e crea un effetto contrapposto al reale. Questo effetto Leopardi lo definisce con alcuni termini che indicano proprio un movimento senza finalità, un’energia fisica che non ha una meta ma si muove in modo indistinto: «vago», «indeterminato», «indefinito».
C’è un pensiero dello Zibaldone, scritto pochi mesi dopo L’infinito, dove Leopardi sembra quasi voler spiegare meglio sé stesso, e osserva che i poeti antichi non descrivevano mai un oggetto o una scena in modo completo, ma usavano sempre pochi tocchi, pochi accenni. In quel modo lasciavano l’immaginazione «errare nel vago e indeterminato delle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza dell’intiero» (Z 100, 8 gennaio 1820). Se ci pensiamo si tratta proprio del rapporto tra vicino e lontano. Il vicino diventa lontano, si apre alla lontananza. La fantasia ondeggia. Produce «stravaganza» e «maraviglia». E questi sono i sentimenti che ci rendevano «estatici nella nostra fanciullezza». Ho letto questo passaggio perché penso che la condizione di uno sguardo «estatico» sia quella che si crea nell’Infinito. «Estatico» vuol dire in greco «che esce da sé», che supera cioè i confini dell’io, o che allarga questi confini. Gli occhi si spalancano sul mondo e vedono in modo diverso. La mente diventa il luogo dove si scatena un «divino ondeggiamento d’idee confuse». Gli stessi sintomi appartengono alla situazione amorosa. Ma Leopardi non li usa nell’Infinito. Inizia a parlarne nel secondo idillio, La sera del dì di festa, ma poi li riprenderà nella canzone Alla sua donna, che è un vertice dove la meditazione amorosa e quella filosofica si incontrano.
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Leopardi aggiungerà elementi narrativi al nucleo che si trova nel primo idillio, e spesso lo farà alludendo a memorie amorose. Sembra che qui invece, dove la pienezza finale è irripetibile, il desiderio non abbia necessità di rivolgersi verso niente altro che l’osservazione del pensiero che sta per estinguersi. Dopo aver abbandonato il colle e la siepe, Leopardi non ha bisogno di altri oggetti reali. Adesso voglio solo concludere proponendovi un’unica frase, scritta da Leopardi molti anni dopo, dove tutto questo lungo discorso viene sintetizzato e osservato con uno sguardo fermissimo, uno sguardo che dura un attimo: «La poesia sta essenzialm. in un impeto» (Z 4356).
Da “Spalancare gli occhi sul mondo” di Marco Antonio Bazzocchi, il Mulino, 240 pagine, 18 euro