«I bar che hanno deciso di dedicarsi al caffè acido che ha preso piede nel resto del mondo dovrebbero mettere un avviso, chiamarlo in un altro modo (anche nobilitante, se vogliono: “caffè VERO”) così noi consumatori possiamo sapere cosa andiamo a bere, senza sofferenze inutili. Oppure decidiamo che quello che abbiamo sempre bevuto lo chiamiamo solo espresso e caffè lo lasciamo ai neopuristi. Ma insomma veniamoci incontro». È da questa citazione-provocazione di Luca Sofri, direttore de Il Post, che Anna Prandoni prende spunto per aprire l’ultimo appuntamento di Tavola Spigolosa che vede come protagonisti i nuovi format enogastronomici.
Sempre di più al giorno d’oggi si fa concreta quella percezione secondo cui la ristorazione si suddivide in quei posti “normali”, da tutti i giorni, che esistono da sempre, che nonostante siano lontani dalle tendenze di oggi e non siano sulla bocca di tutti perché privi di ufficio stampa e di Instagram sono sempre pieni, e quei posti in cui si va per cercare la cosa in più, o “l’esperienza” come viene definita.
«I ristoranti dove si fa l’esperienza sono ben annunciati, non ci capiti dentro per sbaglio». Esordisce così Cesare Battisti, proprietario e chef del ristorante Ratanà: «Il mondo della ristorazione ha tantissime espressioni. È difficile incasellare le persone, perché noi facciamo quello che vogliamo. Bisogna diffidare da chi segue il gregge. Bisogna porsi un problema differente. Poniamoci un problema che è quello che nella maggior parte dei locali a Milano se chiudi gli occhi non si sa dove stai mangiando, si potrebbe essere in qualsiasi città europea, perché si soffre di carenza di identità».
Per Gianni Tratzi, fondatore di MezzaTazza Consulting, fondamentale è continuare a garantire delle certezze alle persone, la transizione non può essere radicale: «È importante far stare bene il cliente, la media della clientela non è pronta a bere solo caffè acidi. Le persone che vanno al bar vogliono del comfort e se si vanno a inserire dei caffè disorientanti, magari non spiegati e privi di alternative più tradizionali, non si fa del bene alla vendita; in tutte le grandi caffetterie europee vengono comunque sempre selezionati almeno due blend dalla bassa acidità, dei caffè passepartout appetibili per tutti».
Il messaggio che vuole passare Gianni Tratzi oggi per i caffè è lo stesso di cui Gianluca Ladu si è fatto portavoce nel mondo del vino, con l’apertura dodici anni fa di Vinoir, con il cui format è stato in grado di individuare una nicchia che negli anni successivi si è diffusa moltissimo e ha aperto la strada a nuove realtà. Ma quell’intercettazione del fenomeno si è comunque intrecciata con la capacità di raccontare e di farsi portavoce di un messaggio.
«Quando abbiamo aperto eravamo stanchi dell’offerta che c’era, noi eravamo semplicemente appassionati, ci siamo buttati, non avevamo nemmeno un business plan. La scoperta dei piccoli artigiani è stata determinata dalla fatica di bere vini che ci avevano stancato, non perché non fossero buoni, ma semplicemente non incontravano più il nostro gusto. Lo scenario è molto mobile, anche il gusto a livello medio è cresciuto tanto, e tanti giovani si sono avvicinati a questi prodotti e progetti. L’Italia è un po’ reazionaria, fatica ad adattarsi ai nuovi termini, c’è sempre diffidenza nei confronti di chi cambia l’offerta, anche se facendo questo solleva la qualità dei prodotti».
«È bello anche lavorare insieme», continua Cesare Battisti, «con persone che hanno la tua stessa visione, e proprio grazie a questo avere la possibilità di aprire nuove realtà, che solo apparentemente possono sembrare non appartenere allo stesso format, come nel caso delle insegne nate nella famiglia Ratanà, il pastificio e la neonata osteria, ma che poi nella realtà dei fatti crescono insieme e si supportano a vicenda».
Per Gianni Tratzi la chiave per far funzionare un nuovo locale è la coerenza, tra i prodotti utilizzati, tra quello che si fa da mangiare e da bere. Tutto deve essere armonico, compresi i rapporti fra il personale. «Spesso – afferma – quando arrivo in un nuovo locale la cosa più complessa è inserirsi nelle gerarchie interne e farsi accettare. Se proponi nuove idee e nuovi prodotti il personale ti mette davanti a muri che sono sempre uno stress positivo di come reagirebbe il cliente, per il quale c’è sempre molto amore e interesse».
Come intercettare poi un trend e farlo arrivare prima degli altri Anna Prandoni lo ha chiesto a Gianluca Ladu, il quale afferma che «da quando abbiamo aperto avevamo in mente un modello, un’idea, che ci abbiamo messo un po’ ad ottenere e a sviluppare nel concreto, in base alle forze che via via potevamo permetterci. Anche la proposta gastronomica che è cresciuta negli anni è stata pensata come strumentale o funzionale a bere dei vini particolari. È un trend in cui abbiamo sperato e in cui ci siamo buttati. Sul discorso coerenza sono d’accordo, la sintesi perfetta tra il vino e la cucina non è sempre stata facile da ottenere. Al momento l’offerta è molto sinergica, brutale e incentrata sul prodotto, ma non è stato sempre così. Poi ci vuole anche fortuna».
In conclusione è stato chiesto ad ognuno dei tre ospiti tre parole e concetti per definire un progetto. Alla base per tutti però c’è un punto fisso: la coerenza. Per Cesare Battisti imprescindibili sono il rispetto delle proprie idee e tanta pazienza. Per Gianni Tratzi, ci sono grandi lacune nella conoscenza degli aspetti amministrativi e burocratici da parte di chi apre un proprio luogo e poi anche uno scarso approfondimento finanziario in prospettiva, c’è molta confusione relativamente ai costi effettivi che ha un’attività.
Infine conclude Gianluca Ladu sostenendo che «è fondamentale avere innato uno spirito di altruismo, anche in realtà molto piccole, per poter dare sempre esperienza di benessere. Non devi essere individualista, ma devi avere sempre spirito di squadra, propensione e tanta lucidità nell’aprire un’attività».
Conclude Anna Prandoni aggiungendo le sue due: sorriso e accoglienza.