Il governo comunista del Vietnam ha messo dietro le sbarre un altro importante esponente della lotta ai cambiamenti climatici. Il 28 settembre un tribunale di Ho Chi Minh City ha infatti condannato Hoang Thi Minh Hong a tre anni di carcere per aver evaso quasi duecentottantamila dollari di tasse per le attività legale all’associazione ambientalista Change, da lei fondata. La donna, di cinquantuno anni, per almeno un decennio ha guidato le campagne ambientaliste in Vietnam. I leader delle Ong come lei sono fortemente impegnati nel proporre soluzioni sostenibili alle crisi climatiche globali e nel combattere l’inquinamento e il traffico illegale di legname e fauna selvatica nel Paese asiatico.
Negli ultimi decenni in Vietnam le questioni ambientali sono diventate fortemente politicizzate. Tra la fine degli anni 2000 e l’inizio degli anni 2010, il progetto di una grande miniera di bauxite venne osteggiato dai residenti locali, preoccupati per l’impatto ambientale e per il coinvolgimento cinese nell’opera. Nel 2016, invece, una perdita di sostanze chimiche lungo la costa centrale del Vietnam, ora riconosciuta come uno dei peggiori disastri ambientali della storia locale, e la conseguente risposta inadeguata sulle ricadute da parte delle autorità, ha generato proteste su larga scala, abbastanza rare nel Paese. Le manifestazioni sono state poi represse con una serie di arresti.
Più recentemente, l’opaco sistema legale del Vietnam è stato spesso oggetto di critiche da parte degli osservatori internazionali, soprattutto da parte delle organizzazioni che difendono i diritti umani, per la crescente repressione attuata contro gli attivisti climatici, proprio mentre il governo locale sta tentando un avvicinamento agli Stati Uniti e nelle intenzioni continua a dichiarare di voler ridurre l’impiego di combustibili fossili.
Hoang Thi Minh Hong nel 2018 ha partecipato al programma Obama foundation scholars e nel 2019 era stata inserita da Forbes nella lista delle cinquanta donne vietnamite più influenti. È almeno la quinta persona in due anni a essere stata incarcerata con la solita falsa accusa di evasione fiscale. Nel 2022 aveva improvvisamente chiuso l’organizzazione Change proprio perché spaventata dai frequenti arresti.
L’11 settembre 2023, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha visitato il Vietnam per confermare il miglioramento delle relazioni tra Stati Uniti e il Paese asiatico, elevate al rango di “partenariato strategico globale”. Tra gli obiettivi chiave concordati sono stati menzionati la promozione dei diritti umani, la protezione del clima e la cooperazione in ambito ambientale. Appena quattro giorni dopo la partenza di Biden da Hanoi, però, la polizia ha incarcerato il direttore del think tank indipendente Vietnam initiative for energy transition che si occupa di politica energetica.
Ngo Thi To Nhien aveva già lavorato con l’Unione europea, La Banca mondiale e le Nazioni unite, ma a preoccupare è soprattutto il fatto che in questo periodo stesse collaborando all’implementazione del Just energy transition partnership, un progetto finanziato dal G7 da quindici miliardi di dollari finalizzato a liberare il Vietnam dai combustibili fossili. Le accuse contro di lui non sono state rese note e l’arresto, inevitabilmente, ha gettato ombra sull’accordo. Nonostante la diffusa condanna, sembra tuttavia improbabile che la situazione del Vietnam in materia di diritti umani rallenti in modo significativo il rafforzamento dei legami del paese con l’Occidente, soprattutto perché Vietnam è visto come un partner diplomatico sempre più attraente considerate le crescenti preoccupazioni sulla Cina.
Tra i quattro attivisti climatici presi di mira dal governo nel 2022 figura anche il nome di Nguy Thi Khanh, riconosciuta a livello internazionale e vincitrice nel 2018 del Goldman Environmental Prize. Secondo l’accusa della procura, Khanh avrebbe utilizzato il denaro del premio per uso personale, avrebbe acquistato proprietà da utilizzare come ufficio per la sua organizzazione ambientalista senza presentare imposte sul reddito e non avrebbe pagato ciò che doveva al governo per il premio in denaro ricevuto. Nguy Thi Khanh ha trascorso quasi un anno in carcere prima di essere rilasciata il mese scorso. Non è stata fornita alcuna ragione ufficiale per questo rilascio anticipato rispetto alla condanna a sedici mesi di reclusione, ma l’ipotesi è che la sua liberazione serva a rassicurare gli osservatori esterni in merito alla volontà del governo vietnamita di attuare piano di transizione energetica.
In linea teorica, secondo i sostenitori dell’iniziativa, gli accordi Just energy transition partnership (Jetp) sarebbero tra gli strumenti più ambiziosi per affrontare i cambiamenti climatici. Vengono finanziati sulla base del concetto che i Paesi ad alto reddito e responsabili dell’inquinamento globale hanno il compito di aiutare le nazioni meno ricche e meno sviluppate ad abbandonare i combustibili fossili e a costruire infrastrutture per sfruttare le energie rinnovabili senza sacrificare la crescita economica.
Accordi di questo tipo sono stati siglati con il Sudafrica, l’Indonesia e il Senegal e sono in corso delle trattative anche con l’India. I 15,5 miliardi di dollari stanziati per il Vietnam in cinque anni non sarebbero tuttavia sufficienti, a detta di Hang Dao, co-responsabile del Vietnam clean energy investment Accelerator del World Resources Institute, perché per essere attuato il piano energetico del Vietnam richiederebbe 13,5 miliardi di dollari ogni anno.
Entro il 2050, il Vietnam spera di abbandonare il carbone e di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette, ma il piano energetico nazionale prevede di aumentare la quota di energia elettrica basata sul carbone a trentamila megawatt entro il 2030. Questa previsione permetterebbe di ridurrebbe la percentuale di carbone nel mix energetico nazionale ma comporterebbe comunque un aumento della capacità assoluta rispetto al 2020, quando la quantità di energia generata dal carbone era più vicina a ventimila megawatt, secondo i dati dell’International trade administration degli Stati Uniti.
Inoltre, in Vietnam l’ottantadue per cento delle centrali a carbone ha meno di dieci anni e gli impianti dovrebbero raggiungere i trentacinque anni di impiego prima di essere considerati obsoleti. Il consumo totale di energia in Vietnam è raddoppiato tra il 2010 e il 2020. Ecco perché il Paese asiatico ha la più giovane flotta di generatori a carbone del Sud-Est asiatico, ma per mantenere gli impegni sul clima sarà probabilmente necessario il loro pensionamento anticipato.
Le ripetute interruzioni di corrente, dovute anche all’aumento della domanda causato dalle ondate di calore, stanno ostacolando una delle economie in più rapida crescita del mondo, ma il Paese in questo momento non dispone né del capitale né delle capacità per aumentare la porzione di energia solare ed eolica prodotta. Sebbene il Vietnam possa contare sulla più vasta capacità solare del Sud-Est asiatico, gli investimenti sono in fase di stallo dal 2020, dopo che il governo ha smesso di sovvenzionare i produttori di energia solare. Un ulteriore ostacolo agli investimenti è che il governo di Hanoi non ha ancora approvato le leggi che consentirebbero alle aziende di acquistare energia rinnovabile direttamente dai produttori privati.
È essenziale, per il Vietnam, che gli attivisti climatici monitorino i progressi del Paese e continuino a garantire il rispetto dell’impegno preso dall’esecutivo di raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050, controllando anche il che modo vengono spesi i fondi del Jetp.