Gli alieni sono tra noi. Non hanno sembianze inquietanti, ma l’aspetto accattivante di uno scoiattolo grigio, il muso da cartone animato di una nutria o il profumo di un fiore di acacia. Eppure, in molti casi, mettono a rischio l’ecosistema e la biodiversità. Si chiamano specie aliene invasive e sono, da definizione, animali e vegetali trasferiti dall’uomo al di fuori del loro areale naturale, in maniera deliberata o accidentale.
Al tema è dedicata una mostra, “Alieni. La conquista dell’Italia da parte di piante e animali introdotti dall’uomo”, aperta fino al 2 aprile alla Rocca di Lonato del Garda. È un percorso espositivo che comprende una sezione fotografica, filmati, pannelli introduttivi, modelli di insetti in grande scala e alcuni animali provenienti da varie collezioni. Aggiornata con gli ultimi dati scientifici disponibili riguardanti, in particolare, la fauna e flora dell’area del Garda, fa il punto su un problema spesso sottostimato.
La “circolazione” delle specie non è un fenomeno nuovo: da quando esiste, l’uomo trasporta volontariamente o meno organismi viventi allontanandoli dal loro luogo di origine e inserendoli artificialmente in un ambiente nel quale non sono mai stati presenti e dove non sarebbero mai giunti in natura.
Dai daini, i fagiani, i peschi e le carpe importati a scopo alimentare dall’Oriente dai romani nel primo secolo d.C., alle robinie fatte arrivare nel 1601 in Francia dal Nord America dai giardinieri del re Luigi XII, ai casi storici, come quello famoso dei conigli introdotti in Australia nel lontano 1788 e diventati, in assenza di predatori naturali, una piaga per le coltivazioni che ogni anno provoca danni per milioni di dollari, al più ambientato tra gli ospiti stranieri, il ratto, alle storie a lieto fine, come quelle delle patate e dei pomodori arrivati dal Nuovo Mondo; gli esempi sono infiniti.
Ma anche in questo campo la globalizzazione e il riscaldamento globale stanno cambiando le regole e negli ultimi decenni la situazione si è complicata, sia per l’aumento dei traffici e dello scambio delle merci, sia per la tropicalizzazione degli ambienti, in particolare quello marino. Negli ultimi trent’anni le specie alloctone sono aumentate del settantasei per cento.
Ritrovato sulla costa laziale un pesce istrice tropicale.
I ricercatori Ispra hanno recuperato l’esemplare per analizzarlo.La segnalazione è avvenuta grazie alla campagna di Ispra e @CnrIrbim #AttentiAquei4.
Comunicato stampa completo: https://t.co/T8HBFXfmA9 pic.twitter.com/tzTb2vyCfG
— ISPRA (@ISPRA_Press) March 9, 2023
Non tutte sono di per sé nocive o invasive ma, non essendosi, a differenza di quelle native, evolute insieme alla comunità di specie animali e vegetali che fanno parte dell’ecosistema in cui sono state introdotte, la loro presenza può causare squilibri più o meno seri. E nei casi più gravi, anche la scomparsa delle specie più sensibili e vulnerabili, fino al collasso dell’intero ecosistema.
Le conseguenze sono serie. Le specie aliene sono la seconda causa di perdita di biodiversità su scala globale perché spesso provocano il declino o l’estinzione delle specie autoctone. Si stima che dal diciassettesimo secolo il quaranta per cento di tutte le estinzioni di cui sono note le cause siano da mettere in conto a specie invasive. E l’Italia è tra le più colpite, con tremila delle dodicimila specie segnalate in Europa.
Notevole anche l’impatto sociale ed economico: oltre dodici miliardi di euro ogni anno nella sola Unione Europea. Ci sono gli insetti, i più pericolosi perché le dimensioni minime ne facilitano la diffusione incontrollata, che danneggiano le colture e/o la salute come la zanzara tigre, un’immigrata di successo che dalle foreste del Sudest asiatico, in pochi decenni ha colonizzato la Cina, il Giappone, il Madagascar, le isole oceaniche, Australia e Nuova Zelanda comprese, il Nord e il Sud America, l’Europa e l’Africa.
Particolarmente prolifica e aggressiva, portatrice del virus della chikungunya, che causa febbre alta e dolori, è apparsa per la prima volta in Albania nel 1979 e nel 2010 è arrivata fino a Bolzano. Non in volo dato che, di suo, si sposta sì e no di duecento metri, ma utilizzando bagagli, piante, soprattutto quelle trasportate in contenitori con acqua, pneumatici.
La cimice asiatica, avvistata per la prima volta in Emilia-Romagna nel 2012, si nutre di foglie e frutti di oltre trecento specie di piante ospiti, una vera minaccia per le coltivazioni. Il versatile moscerino Suzuki, cinese, attacca tutte le specie frutticole e viticole e può causare la perdita totale dei raccolti. E, sempre dall’Oriente, proviene la Vespa velutina, che stermina i già tanto provati alveari delle api, ma anche insetti impollinatori come bombi e farfalle, mettendo in crisi l’intero sistema.
Anche la nutria, però, ha le sue responsabilità. Complessivamente, tra il 1995 e il 2000, l’impatto economico di questa specie è stato stimato in oltre undici milioni di euro, senza contare i 2,8 milioni di euro necessari per il controllo delle sue popolazioni. Il suo equivalente nel mondo vegetale è probabilmente l’ailanto, un arbusto di origine asiatica (Cina e Vietnam) che dal diciottesimo secolo è stato introdotto in Occidente come pianta ornamentale con il poetico nome di albero del paradiso. Si propaga per polloni ed è in grado di colonizzare spazi molto grandi in pochissimo tempo, soppiantando completamente la vegetazione originaria. Il problema è che il taglio, se non viene estirpata l’intera pianta, ne favorisce la crescita invece di contenerla.
Sui mezzi per contrastare il diffondersi incontrollato delle specie alloctone il dibattito è aperto. L’Unione europea ha affrontato il problema approvando un regolamento (1143/2014), dotato di un elenco che ne indica la diffusione a livello unionale e le caratteristiche, con lo scopo di prevenire nuove invasioni e intraprendere misure di gestione delle popolazioni già presenti. In particolare, si punta all’ allerta precoce, che consente di intervenire tempestivamente in caso di rilasci in natura di specie esotiche, prima che queste assumano carattere di invasività.
Ci sono storie di successo, come quella del progetto Life della Commissione europea, che negli anni scorsi ha eradicato il ratto nero, comparso sull’isola di Montecristo al seguito delle imbarcazioni e solito uccidere i pulcini, salvando così la nidificazione delle berte minori, uccelli marini simbolo del Parco nazionale dell’arcipelago toscano. Una vicenda che ha suscitato tuttavia polemiche infinite: il derattizzante era stato sparso sull’isola usando un elicottero, rischiando così, secondo alcuni, di avvelenare anche le rare capre autoctone dell’isola e altri organismi.
In realtà i metodi drastici esistono e sono applicabili. Lo dimostra il caso della Nuova Zelanda, dove da alcuni anni con il piano Predator free New Zealand by 2050 si è dichiarata guerra totale e senza esclusione di colpi – esche avvelenate, trappole, premi a chi stermina più esemplari – a ratti, ermellini, opossum e in generale a tutte le specie “aliene” che minacciano il suo speciale ecosistema.
La particolare natura del Paese che è, di suo, totalmente priva di mammiferi e ha tra i suoi esemplari più rari volatili iconici come il kiwi, rende necessarie misure forti, in grado di contrastare l’uccisione stimata di circa venticinque milioni di uccelli nativi ogni anno, che pesa sul settore primario neozelandese per oltre tredici miliardi di dollari, quasi il due per cento del Pil. Lo sterminio totale, tuttavia, è, per ammissione degli stessi promotori, utopico, data, ad esempio, l’enorme prolificità dei ratti. E suscitano polemiche le proposte estreme di eradicare anche intrusi più vicini al cuore degli abitanti, come gatti e cani.