L’arte femminista, e più in generale l’arte prodotta da artiste donne, riceve l’attenzione che merita? Certamente no. Influisce però, scava le coscienze, modella la società. Con un’esposizione unica nel suo genere, Tate Britain, la costola del celebre centro d’arte moderna Tate Modern dedicato esclusivamente agli artisti britannici, esplora il panorama dell’arte femminista nel Regno Unito tra l’inizio degli anni Settanta e il 1990.
Le artiste in questione hanno utilizzato idee e metodi talvolta radicali per scuotere la cultura britannica: è anche grazie a loro che il movimento di liberazione femminile è stato più rapido che altrove. Pittura, fotografia, cinema e performance: una moltitudine di mezzi espressivi sono stati utilizzati per combattere le ingiustizie, prendere posizione sui diritti riproduttivi, sulla parità di retribuzione e sull’uguaglianza razziale. Questa creatività ha contribuito a plasmare un periodo di cambiamenti cruciali per le donne in Gran Bretagna ma, nonostante questo, molte di queste artiste sono state spesso escluse dalle narrazioni ufficiali dell’epoca.
Women in revolt!, visitabile fino al 7 di aprile, è stata quindi concepita dalla curatrice Linsey Young con l’obiettivo di riconoscere il contributo della generazione di donne di sua madre: l’arco temporale preso in esame consente infatti di coprire momenti politici e sociali significativi della storia britannica, come la prima conferenza di liberazione delle donne nel 1970, la prima conferenza delle donne nere nel 1979 promossa da Owaad, l’Organizzazione delle donne di origine asiatica e africana, le proteste di Greenham Common, il movimento punk britannico, le rivolte di Brixton, la crisi dell’Aids.
«L’aspetto documentaristico è molto importante: Chandan Fraser ad esempio ha raccontato magnificamente attraverso le sue fotografie la prima conferenza di liberazione delle donne», argomenta l’assistant curator Hannah Marsh. «I suoi scatti sono in grado di dare al pubblico di oggi un’idea del numero di donne che vi parteciparono e dell’importanza di questi momenti. C’è un’immagine fantastica che ritrae il sociologo Stuart Hall che si occupa dei bambini mentre la conferenza è in corso. Un contributo prezioso è anche quello del collettivo See Red Women’s Workshop, attivo tra il 1974 e il 1990, che in questo lasso di tempo ha realizzato manifesti che rispondono a ogni momento politico preso in esame: il loro lavoro è presente praticamente in ogni stanza e rappresenta un ottimo esempio di artisti che hanno sfidato, affrontato e criticato direttamente le politiche di Margaret Thatcher, primo ministro britannico in quegli anni».
Un elemento cruciale dell’esposizione è rappresentato anche dalla rappresentazione della maternità.
Il bellissimo Antepartum di Mary Kelly documenta la sua pancia incinta, con il bambino che si muove dentro di essa: l’idea è quella di condividere con il mondo un momento intimo, privato ma allo stesso tempo universale. C’è anche Ten Months di Susan Hiller, che documenta la crescita del suo stomaco durante la gravidanza attraverso la fotografia: entrambe le opere, realizzate all’inizio degli anni Settanta, sono state considerate radicali per l’epoca. L’artista Shirley Cameron ha invece introdotto i figli nelle proprie opere, come testimonianza della sua esigenza di bilanciare i doveri del lavoro di cura con la realizzazione di opere d’arte: un discorso sulla maternità quanto mai attuale, ravvisabile anche nella serie di fotografie Mothers Pride di Melanie Friends, che celebra le storie delle madri single.
E dei corpi femminili…
Sfidare le aspettative della società su quale sia il modo appropriato di dipingere i corpi femminili è stato il focus della produzione del collettivo Neo-Naturists, mentre Linder Sterling si è concentrata sulla rappresentazione del corpo delle donne nella pornografia e nella pubblicità, esaltandone gli aspetti attraverso il fotomontaggio.
Come è stata data forma alla lotta femminista in testi, immagini e canzoni?
Gli oggetti in mostra sono più di settecento e raccontano come la lotta femminista si sia articolata attraverso una moltitudine di mezzi espressivi: attraverso la documentazione dell’attivismo con la fotografia, come si vede nel lavoro di Format photography agency, attraverso la produzione di periodici femministi come Banshee e la rivista Mukti, fino ai dipinti che evidenziano l’oggettivazione e l’erotizzazione del corpo femminile, come nel lavoro di Lesley Sanderson.
Le proteste del Greenham common women’s peace camp (una serie di campi istituiti per protestare contro la costruzione di armi nucleari presso la Raf greenham common, nel Berkshire, attivi dal 5 settembre 1981 al marzo 1982 quando trentaquattro delle duecentocinquanta donne che protestavano furono arrestate, ndr) hanno rappresentato un momento cruciale della lotta femminista britannica e godono di ampio spazio all’interno di Women in Revolt!
In particolare nel lavoro di Margaret Harrisons, Common reflections, che consiste nella ricostruzione di una parte della recinzione di Greenham common. Il recinto di Harrisons è composto da vari oggetti quotidiani e personali, come giocattoli, carrozzine, utensili da cucina, spazzole per capelli e agende e comprende uno specchio attaccato al retro della recinzione. Le donne del campo spesso attaccavano oggetti importanti al recinto per mostrare la loro unità e solidarietà: Harrison descrive quindi la recinzione come una sorta di tela bianca per l’espressione di queste donne. Lo specchio si riferisce invece alla protesta intitolata Rifletti la base che si tenne al campo e in cui le donne tenevano in mano degli specchi dalla base, per chiedere alla Raf di riflettere sulle proprie azioni.
In che modo l’opera e l’attività di tutte queste artiste ha contribuito a plasmare la cultura britannica?
Un esempio fantastico è rappresentato dall’Organizzazione delle donne di origine africana e asiatica: l’Owaad, un’organizzazione attivista in cui la creatività ha giocato un ruolo fondamentale. Fondata nel 1978 da Stella Dadzie e Olive Morris, l’Owaad ha visto, alla sua prima conferenza nazionale, la partecipazione di oltre trecento donne. Sotto l’egida dell’Owaad si formarono diversi collettivi di donne nere in tutta Londra. L’organizzazione ha condotto ad esempio una campagna contro la sperimentazione del Depo Provera, un farmaco anticoncezionale iniettabile con conseguenze nell’insorgenza di osteoporosi, sensibilizzando le comunità nere su questo tema (la sperimentazione e somministrazione si è concentrata soprattutto in Africa), si sono battute per l’abolizione delle leggi sull’immigrazione, per l’educazione dei bambini neri e contro le morti dei neri in custodia presso la polizia. Le loro campagne e la loro forte perseveranza hanno avuto un innegabile e duraturo effetto sulla società britannica: la presenza dell’Owaad è profondamente sentita nella mostra, soprattutto attraverso il materiale d’archivio, ma anche visivamente attraverso la produzione artistica dell’organizzazione, che è servita come strumento di cambiamento politico attraverso striscioni, dipinti, vignette, scritti e fotografie.
Le artiste presentate sono molto diverse tra loro e alcune condividono il fatto di essere state escluse dalla narrazione artistica canonica e vengono presentate oggi per la prima volta. Quanto è stata estesa la loro esclusione e come ha influito sulle loro carriere?
Gran parte dell’arte e dell’attivismo di questo periodo è stata visibile negli archivi, o presso gallerie indipendenti e collettivi ed è stata studiata e raccontata dagli storici dell’arte e dagli artisti, ma molte di queste opere non sono mai state esposte in una grande mostra istituzionale. Indubbiamente le donne di questo periodo non hanno avuto il riconoscimento istituzionale che meritavano, è quindi molto importante che queste storie siano incluse in un centro importante: sono uno strumento vitale per la comprensione dell’arte britannica e della storia sociale.
Quali artiste rappresentano al meglio la qualità “radicale” del movimento?
Sicuramente le performance di Anne Bean erano estremamente radicali per l’epoca: Bean mise alla prova la resistenza fisica del proprio corpo, rivendicando la performance come spazio politico per le donne artiste. Le sue performance consistevano nella sperimentazione di quanto a lungo l’artista stessa potesse sopportare di esporre il proprio corpo al calore estremo, o di resistere sott’acqua.