Inventario americanoPerché gli oggetti di cui ci circondiamo non sono semplici cose

“American Objects” è una raccolta di tredici voci che raccontano il proprio rapporto – più o meno lungo – con gli Stati Uniti, partendo dagli oggetti che per caso o per scelta sono finiti nelle loro mani, nelle loro tasche, nelle loro case

American Objects

Nel mondo occidentale le cose aumentano a dismisura. Ci circondiamo quotidianamente da svariati oggetti: alcuni perché ci servono, altri per le loro qualità estetiche, altri ancora perché ci conferiscono uno status, dandoci la sensazione di appartenere a un gruppo. Tendiamo ragionevolmente a pensare che questa abbondanza di oggetti – spesso di dubbia utilità e gusto – ci porti a essere più superficiali e materialisti.

La teoria del minimalismo come stile di vita ha guadagnato popolarità nei primi anni Duemila grazie a pubblicazioni quali “Il magico potere del riordino”, di Marie Kondo (2010) e sottende l’idea che le relazioni con le cose vadano a discapito delle relazioni con le persone e con sé stessi. «C’era un vuoto incolmabile nella mia vita, così ho provato a riempirlo come fanno la maggior parte delle persone: con le cose», dice il minimalista Ryan Nicodemus nei primi minuti del documentario “Minimalism: A Documentary About the Important Things” (2016).

Altre volte, però, sono proprio le cose a creare connessioni e a fungere da collante tra le persone. Ne racconta “American Objects”, un’antologia nata da una raccolta di oggetti personali recuperati in America. «Forse proviamo una sorta di affezione o gratitudine verso questi oggetti – scrive la curatrice Laura Sauchelli nell’introduzione del volume –. Ci consentono di mangiare, muoverci, in generale di fare».

American Objects Cover

Come è nata l’idea di realizzare questo libro?
Amo viaggiare, sono stata tante volte a New York e a gennaio mi è capitato di trascorrere lì un mese intero. Io nasco come grafica e direttrice creativa e mi sono appassionata di questa raccolta di oggetti che mi capitavano davanti. Avevo voglia di trattenere delle cose che mi capitavano sottomano, magari che avevo preso durante la spesa oppure oggettini che mi trovavo in tasca, come il biglietto della metro o un souvenir. Mi è sembrato che potessero raccontare qualcosa tutti assieme, come se fossero una sorta di inventario. Quindi li ho fotografati, dandogli una forma visiva e da lì ho pensato che la narrazione si sarebbe potuta spostare anche su una parte di racconto. È stata un po’ una sfida, ma da parte degli autori c’è stato da subito entusiasmo. L’idea era di scrivere qualcosa che se fosse libero da vincoli. Ho chiesto di scegliere un oggetto tra i tredici, lasciando assoluta libertà sul taglio da dare alla narrazione, dipendentemente dalla sensibilità di ognuno e ognuna. Il risultato è un coro di voci molto umane, una lettura piena di esperienze personali, dai tratti anche intimi. Si parla di cosa è successo a loro in America, di come l’hanno vissuta e cosa è significato per loro quell’oggetto.

American Objects

L’antropologo Daniel Miller ha scritto un libro dal titolo “Cose che parlano di noi”, in cui gli oggetti sono analizzati in quanto tratti essenziali della nostra personalità. Che rapporto hai con gli oggetti?
Intessiamo giornalmente dei rapporti con le cose inanimate, qualche volta diventano anche interlocutorie nei nostri pensieri e per questo hanno una forte potenza narrativa: quella che noi gli assegniamo vivendo insieme, grazie o attraverso di loro. Io tendo a raccattare cose perché quelle cose hanno dietro una storia di costruzione dell’oggetto. Trovo molto affascinante capire come quell’oggetto è entrato sul mercato, perché si è diffuso, chi la usa e come. Gli oggetti che ho fotografato sicuramente sono di poco valore, tanti sono di uso comune e sono anche un po’ malinconiche: raccontano di gesti quotidiani, di routine, cose che fai quasi senza accorgertene. Per esempio, i cup noodles, che sono un cibo terrificante. Io non mi alimento così, però sono stati un oggetto significativo per me: era quella valvola di sfogo nel momento in cui non avevo altro da mangiare quel giorno. Scendevo di casa ed era la cosa più facile e veloce quando avevo poco tempo. Sono cose che ritroviamo costantemente e a cui non diamo praticamente nessun credito, le diamo per scontato. Io invece volevo proprio fare il contrario, perché spesso si tratta di oggetti che portano con sé tutta l’emotività del posto che hai sognato e che dopo tanto hai raggiunto. Poi è normale voler conservare la cosa emblematica, anche se fa schifo, anche se di dubbio gusto. Trattenere qualcosa che potrebbe sparire, attribuendogli un valore molto più alto di quello commerciale. Come a dire: «adesso tu rimani, stavolta non vai via: non ti voglio buttare, non ti voglio consumare, non ti voglio usare. Ma ti fermo qui e in questo fermarti cerco di capire che cos’altro vuoi dirmi». Era interessante anche che quella da ogni oggetto partisse un discorso che spettava a qualcun altro fare, in questo senso gli interventi degli autori sono stati cruciali.

American Objects

Come è stato delegare la narrazione degli oggetti anche cosciente del fatto che il racconto sarebbe potuto essere molto diverso dalla tua idea iniziale?
È stato magico, la trovo la parte più interessante di tutto, perché è quando ho passato il testimone. Io sono arrivata fino a un certo punto, poi vedi che l’altra persona è arrivata altrove, spingendosi dove non ti eri minimamente immaginato. È stato un momento di condivisione. La sensazione che avevo assegnato io all’oggetto spesso poi coincideva con quella che loro avevano dato al pezzo. Quando non accade in realtà è molto interessante, perché ti fa riflettere su tanti aspetti che magari non avevi notato, quando invece si è sulla stessa linea d’onda è emozionante, perché pur avendo un trascorso diverso dal mio, si nota quanto i sentimenti siano condivisi e universali. Per esempio, Andrea Marinelli ha scritto un pezzo sulla metro card citando un incrocio preciso dove gli erano successe delle cose, dove lui usciva per andare al lavoro, che è lo stesso incrocio dove è stato obliterato quel biglietto. Gli ho chiesto se l’avesse fatto apposta, se avesse cambiato la fiction e mi ha risposto di no. È chiaramente una coincidenza stupida, però è divertente quando vedi che tante persone diverse fanno degli stessi piccoli passi.

American Objects

C’è un oggetto che hai fotografato a cui sei particolarmente legata? Perché?
Sono tutti oggetti a cui sono molto legata. Sicuramente i cup noodles sono un oggetto che mi ha colpito molto. Ma anche l’Anthora Coffee Cup, che deriva un po’ da tutto il mondo greco. Sono due prodotti alimentari perché mi piace molto il mondo del packaging. Non solo graficamente, mi piace il fatto che le persone lo utilizzano, che ce l’abbiamo in casa e mi piacciono anche per il fatto che sono oggetti estremamente cinematografici. Negli anni hanno poi assunto significati diversi, perché sono cose che vedi utilizzate trasversalmente, sono molto democratiche. Sono la chiave per entrare in dei mondi in modo molto semplice, nel senso che a livello economico tu magari non puoi far nulla in quella città in quel momento, però quella cosa lì, quel piccolo oggetto, lo puoi avere. Esiste qualcosa a portata di tutti che ci fa sentire parte di quel luogo, che ci fa sentire accolti. Lo stesso discorso vale per i cup noodles: sono veramente malsani, ma sono alla portata di tutti, dai ricchi e poveri. Il ricco li usa nella giornata storta, mentre il povero li usa per sussistenza. Mi emoziona sempre vedere come queste cose siano estremamente utilizzate e scambiate.

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