Ago ergo sumLa vaga proliferazione degli attivisti senza alcuna attività specifica

Nell’era dei social e della condivisione dal vivo i paladini delle cause sono diventati una folla. Lo fanno forse per autogratificazione o per dare un significato personale alla propria vita ma almeno ci dicano per cosa lottano concretamente

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C’è un personaggio che incede con crescente fortuna nei talk-show e in genere nei media: è l’Attivista. Attivista di che? Attivista, e basta. Come se, poniamo, in un dibattito televisivo, di un docente universitario di storia contemporanea il sottopancia dicesse genericamente “professore”; o di un docente universitario di economia aziendale, lo stesso: “professore”.

Una volta veniva specificato: “attivista per…”, “attivista contro…”, “attivista di…”, che è come dire “professore di storia contemporanea”, “professore di economia aziendale”. Adesso (spesso) non più: quasi a battezzare un nuovo ambito di competenza, se non addirittura una nuova professione, come c’è quella dello storico o dell’economista. E di fatto è così: tanto è vero che l’attivista ci può rispuntare davanti con abiti variamente mutevoli, pronto a attivarsi per la qualunque, in una dimensione totalizzante e – appunto – professionale del suo attivismo. Attivista, nel senso mediatico del termine, è chi si impegna per una qualche causa sentita (non necessariamente da tutti) come buona, svolgendo una energica attività in seno a un gruppo più o meno vasto e organizzato al fine di produrre un cambiamento nella politica, nella società o tout-court nel mondo: una nozione piuttosto generica, suscettibile di molteplici specificazioni. Ma in origine era anche meno definita.

In origine c’era la parola “attivismo” (dal latino actus, participio passato di ago, agisco), che circolava ai primi del Novecento, a designare la predilezione per l’atto immediato e creativo capace di modificare la realtà e produrre il nuovo. Era lo spirito del tempo, che aveva le sue premesse tardo-ottocentesche nella filosofia dell’azione di Maurice Blondel come nel vitalismo di Henri Bergson e nel sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel, nonché nella pedagogia di John Dewey, e che finì con il contagiare il lessico di varie discipline: le prime attestazioni di “activist”, secondo l’Oxford English Dictionary, risalgono al 1908, nel Journal of Philosophy, Psychology & Scientific Methods, ma “activisme” è anche il nome che Stanislas-Étienne Meunier dà alla sua dottrina geologica, nella Géologie générale del 1910. È però nel Belgio del 1916 che “activisme” e “activiste”, utilizzati dalla stampa francofona a proposito del movimento dei Flamingants, ricevono la declinazione politica che ne segnerà l’accezione più comune.

Dai paladini della cultura fiamminga si è sviluppata nel corso del Ventesimo secolo una numerosa e diversificata progenie, che nell’era dei social e della condivisione real time è diventata una folla. Così che oggi abbiamo – tra i più gettonati – gli attivisti per l’ambiente, quelli per la pace, contro la pena di morte, per i diritti umani, ma anche, in una puntigliosa corsa alla specializzazione, gli attivisti Lgbtq+, quelli per la difesa dell’identità queer, per i diritti dei migranti, degli animali, di questa o quella categoria di lavoratori, per la microfinanza dal volto umano, per la causa degli adolescenti sioux, contro la diffusione delle armi, contro la tortura, contro il bullismo, per la libertà d’espressione, per la promozione della salute mentale, per i diritti digitali, per l’open access e così via parcellizzandosi (una esemplificativa – ma ovviamente non esaustiva – panoramica degli attivismi e dei loro propugnatori al link).

È un generoso attivarsi di energie, sospinto anche da un certo desiderio di autogratificazione, dalla voglia di mobilitarsi per dare un senso alla propria vita, all’insegna dell’ago ergo sum. E certo l’attivismo, per ognuna delle cause predette, e per infinite altre ancora, è più apprezzabile del passivismo. Nell’antica Grecia culla della democrazia il cittadino consapevole delle sue prerogative che interviene attivamente nella vita della polis, ossia il polítes, veniva contrapposto a chi se ne disinteressava, preso unicamente dai suoi affari, che era chiamato idiótes, ossia “individuo privato, senza cariche pubbliche” (dall’aggettivo ídios, “privato, particolare, che sta a sé”, ma anche “ignorante, rozzo, ineducato, non esperto”): una parola transitata pressoché inalterata nella nostra lingua, perdendo il suo radicamento originario ma vieppiù accentuando la connotazione spregiativa.

Senonché può talvolta accadere che concentrarsi unilateralmente sull’oggetto del proprio attivismo, prescindendo dalla sua compatibilità con il contesto, senza per questo sminuire la bontà della causa finisca nella migliore delle ipotesi con il pregiudicarne il successo, e nella peggiore con l’originare problemi maggiori di quelli che si propone di risolvere. E così l’attivista, bello di fama e di nobili intenzioni, più che a una versione aggiornata e idealmente cosmopolitica dell’antico polítes rischia di assomigliare al suo imperituro opposto.

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