La cabina telefonica era più di un oggetto o di un servizio: i nostri mondi interiori, sussurrati o urlati all’interno dei piccoli abitacoli, si fondevano con il tessuto vivace della città, tra il chiacchiericcio dei passanti e il ritmo incessante del traffico, sotto cieli mutevoli che osservavamo di tanto in tanto, nell’attesa di una risposta. Chiamare qualcuno era quasi un rituale: la moneta con il suo tintinnio metallico – il tributo da pagare – la scheda telefonica da inserire meticolosamente nello slot, la cornetta da sollevare, il corpo dell’interlocutore che cercava sostegno, i tasti che conservavano l’impronta del sudore delle dita. Persino i secondi avevano un peso, scanditi dal ticchettio del contatore. Di per sé, niente di troppo confortevole.
Quando infatti nel 2015 in Italia si propose l’abbattimento di diecimila cabine telefoniche, furono presentate solo centocinque istanze d’opposizione. Fu una resistenza di natura emotiva, piuttosto che pratica. Il nostro legame con le cabine si era infatti disciolto ed era successo quasi senza che ce ne accorgessimo. Nonostante ciò, le cabine telefoniche sono entrate all’interno dell’immaginario collettivo: simbolo di un modo di fare, di storie personali e collettive, di un dialogo tra l’uomo e la tecnologia che tutt’oggi continua ad evolversi e sorprenderci.
Ma per capire dove ha origine questo iconico oggetto, dichiarato in Norvegia patrimonio culturale, dobbiamo tornare al 1889, nel Connecticut, al giorno in cui a William Gray viene negato l’uso di un telefono in una fabbrica vicina per contattare un dottore. A seguito di questo Gray trae l’ispirazione per il primo modello di cabina telefonica, che tramite una campana azionata da un gettone segnalava all’operatore che il pagamento era stato effettuato, permettendo così l’inizio della conversazione. L’invenzione inizia a popolare le strade americane, dove le cabine diventano un ausilio essenziale per i lavoratori dei servizi di trasporto nelle aree più isolate. Nel 1921 arrivano a Londra e tre anni dopo – con l’introduzione del modello K2 – adottano il loro caratteristico colore rosso. In Italia si deve invece attendere il 1952, dove le cabine telefoniche fanno la loro prima apparizione a Milano, in Piazza San Babila e XIV maggio.
Questi oggetti entrano in tutto e per tutto a far parte della nostra vita e negli anni Novanta le strade italiane sono ancora punteggiate dai modelli color rosso mattone, accessoriati delle tipiche cornette nere – un’immagine iconica. Tuttavia, nel 2002, avviene un restyling significativo: circa centoquarantacinquemila cabine vengono rimpiazzate dal design futuristico del modello “Digito”, emblema di una curiosa fusione tra passato e futuro, che ha coinciso proprio col momento in cui la telefonia mobile ha iniziato a erodere la necessità del telefono pubblico.
Oggi, la cabina telefonica emerge come un reliquato archeologico di una modernità meno frenetica, evocando in chi la contempla una curiosità quasi mitologica. È nella sua presenza – una sentinella di vetro e acciaio posata sui marciapiedi delle città e nelle stradine dei paesi – che la cabina telefonica si è inscritta nella nostra fantasia, arricchendo con la sua figura il panorama narrativo della letteratura e dei fumetti. Attraverso di esse Italo Calvino ha annullato la distanza fisica tra padre e figlia nel libro “Fiabe al telefono”, Elliot S. Maggin ha trasformato – con un rituale rimasto impresso a intere generazioni – il mite cronista Clark Kent in Superman e in “Harry Potter e l’Ordine della Fenice” J.K. Rowling ha fatto accedere Harry e il Signor Weasley all’interno del Ministero della Magia, nascosto in piena vista del mondo dei Babbani.
Parte del loro fascino però deriva soprattutto dal cinema. La cabina telefonica compare in gran parte dei cult sia italiani che stranieri, soprattutto nelle pellicole in cui certi aspetti della vita dei protagonisti necessitano di un forte escamotage per emergere. Dagli anni Sessanta ai primi anni Duemila, metallo e vetro diventano il rifugio per coloro che cercano di rivelare le proprie verità, di nascondersi da minacce imminenti o, in circostanze straordinarie, di trasformare radicalmente le loro esistenze. “Matrix” (1999), delle sorelle Wachowski, ne esemplifica tutt’oggi la forza iconica, in particolare nella scena iniziale del primo capitolo, dove la fugace figura di Trinity, illuminata dalla tipica luce verdognola della saga, corre verso una cabina telefonica squillante e, una volta alzata la cornetta, svanisce, salvandosi da un camion che l’avrebbe travolta. L’apparecchio diviene catalizzatore di suspense, soglia attraverso la quale non solo lei ma tutti i protagonisti sfuggono agli artigli dell’illusione, un simbolo di transizione e di rivelazione che eleva la cabina da semplice mezzo di comunicazione a portale verso la realtà, l’unica.
Ma grazie alla cabina si compiono anche le inattese chiamate del destino, come quella ne “Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain” (2001). Qui, circondati da una Parigi dipinta dai toni caldissimi, Bretodeau, un uomo dalla vita apparentemente priva di emozioni, incrocia per caso una cabina telefonica. È all’interno di questa che trova una piccola scatola di metallo che Amélie ha intenzionalmente lasciato per lui. La cabina allora non è più un luogo di passaggio, ma uno scrigno che custodisce i nostri ricordi perduti e offre una seconda occasione di felicità: mentre Bretodeau apre la scatola, il pubblico viene trasportato indietro nel tempo, fino ai ricordi spensierati della sua infanzia.
La sua apparizione più simbolica e funzionale al nostro discorso è però quella nel pluripremiatissimo “La La Land” (2016). La cabina qui si unisce all’obiettivo generale di Damien S. Chazelle di catturare e amplificare la magia della vecchia Hollywood, fondendola a un presente dolceamaro, fatto di sogni e amori che faticano a sopravvivere alla prova del tempo e dei compromessi. Dopo un’audizione andata male, l’aspirante attrice Mia – interpretata da Emma Stone – si rifugia in una cabina telefonica per chiamare la madre. In questo angusto spazio, circondata da pareti che sembrano chiudersi intorno a lei, Mia è visibilmente emozionata e scoraggiata mentre condivide le sue perplessità sulla scelta di perseguire una carriera nel mondo dello spettacolo, che sembra continuare a rifiutarla.
La struttura della cabina telefonica la interpone metaforicamente tra il mondo dei suoi sogni e quello delle sue paure. Diventa una bolla di riflessione personale in cui, solo per un attimo, si concede di temere e crollare, prima di riemergere e di continuare a perseguire, con rinnovata determinazione, i suoi obiettivi.
Probabilmente ispirata dal potenziale cinematografico di questo oggetto carico di memoria e significati, Floriane Devigne realizza “Allo la France”, uno dei documentari più originali presentati alla diciottesima Festa del Cinema di Roma. In un’epoca di comunicazioni istantanee, dove le connessioni virtuali spesso surclassano quelle fisiche, il suo lavoro fa emergere le cabine telefoniche come i resti archeologici di un’era predigitale, testimonianze di un tempo in cui era necessario fermarsi.
Devigne, ci presenta un road movie ambientato nelle periferie e nelle province della Francia, fatto di incontri fortuiti e clip di film più e meno noti. In questo viaggio a ritroso nel tempo ritroviamo progetti di collettivi abbandonati, orizzonti politici spostati, promesse di emancipazione infrante. Riflettiamo, in ultimo, su cosa sia realmente questa cosa che tutti noi chiamiamo “progresso”. Nel frattempo, queste rovine del ventesimo secolo restano in piedi, senza certezza del tempo che rimane loro. Ci ricordano che ogni epoca crea dei simboli; spetta a noi trovare l’ispirazione di ciò che questi possono rappresentare.