Roma, anni Sessanta. Nel pieno della Dolce Vita e dopo il successo di “8½”, il capolavoro di Fellini che ne racconta i fasti e le miserie, nel 1965 irrompono sul grande schermo le inquadrature campo lungo di “Per un pugno di dollari”, commentate magistralmente dalle musiche di Ennio Morricone. È una rivoluzione. Il film di Sergio Leone – il primo della trilogia “del dollaro” – ha un successo planetario che, solo nel primo anno, incassa un miliardo di lire e, soprattutto, apre la strada a un genere esplosivo: il western all’italiana o l’italowestern.
Si mette così in moto una macchina colossale che, nel giro di dieci anni, sforna più di cinquecento titoli, girati tra l’Italia e l’Andalusia. Non tutti indimenticabili, anzi, tanto che vengono rapidamente bollati come b movie ma alcuni – come testimoniano i film di uno dei suoi più celebri cultori contemporanei, Quentin Tarantino – invece, lasciano il segno. A ripercorrere questa pagina del costume e della cultura del nostro Paese, mai narrata prima, arriva in libreria “C’era una volta a Roma: gli anni della Dolce vita travolti dall’epopea degli spaghetti western” (edizioni Readaction editrice Roma), scritto dal regista e sceneggiatore Manuel de Teffè, figlio di uno dei principali protagonisti di quel genere – il bellissimo Antonio de Teffè, in arte Anthony Steffen –.
«“C’era una volta a Roma” non è una biografia (ne esiste già una scritta nel 2007, ndr) ma un romanzo che si ispira alla storia familiare e artistica di mio padre, Antonio de Teffé von Hoonholtz. Un attore romano di origine prussiana che, grazie all’intuizione di mia madre, con il nome d’arte Anthony Steffen è protagonista di ben ventisette western italiani dagli anni Sessanta agli anni Settanta: un vero record. Tra i suoi film di maggior successo “Django the Bastard”, “A Man Called Django”, “A Few Dollars for Django”, “Sabata the Killer”, “Shango e Una lunga fila di croci”, per citarne alcuni».
Il romanzo di de Teffè si apre con il mondo del cinema romano in fermento e la giovane responsabile delle pubbliche relazioni dell’Hotel Hilton che cerca di convincere il fidanzato, aristocratico attore shakesperiano (figlio dell’allora ambasciatore del Brasile) ad abbracciare questa nuova tendenza. «È andata esattamente così: all’epoca la mia futura madre lavorava a contatto con le più grandi celebrità dell’epoca e i registi d’oltreoceano che scendevano a Roma. E fu proprio a un suo spasimante americano, il pugile Rocky Marciano, che chiese di spedirle un completo originale da cowboy: con quello, mio padre sarebbe stato perfetto nel ruolo dell’eroe solitario e senza macchia. Aveva ragione lei, fu proprio così, nonostante gli occhi azzurri e l’eleganza aristocratica di mio padre».
Ma non bastavano speroni e cinturone: per debuttare in questo genere Anthony de Steffen dovette liberarsi della recitazione un po’ accademica da attore di teatro. E, soprattutto, imparare ad andare a cavallo. Ci riuscì e, nel 1965, fu scelto per “La valle delle ombre rosse”. «Io, che in verità ho scoperto i film di mio padre da grande, non avrei mai immaginato di scrivere questo libro, non era qualcosa che avevo pianificato», continua Manuel de Teffè. «Invece, ironia della sorte, stavo lavorando alla sceneggiatura di un western quando la pandemia ha bloccato tutto. In quel momento è scattato qualcosa dentro di me e, complice l’isolamento forzato, ho cominciato a scrivere questa storia, l’omaggio a un mondo che in qualche modo avevo ereditato: “C’era una volta a Roma” è un pezzo del mio cuore trasferito su carta». E anche l’inizio del riscatto di un genere ingiustamente relegato ai margini della storia del cinema.