Il caso CostaBisogna spezzare il ridicolo cortocircuito tra politica e potere giudiziario

Se un banale caso di omonimia basta a far cadere un governo è perché spesso il sistema mediatico ha allevato un’opinione pubblica pronta a scattare di fronte a ogni minimo sospetto di reato. Per far terminare il circolo vizioso, la politica non deve cedere al ricatto della folla forcaiola

LaPresse

Scusate tanto, ci siamo sbagliati. Alla fine, era solo un caso di omonimia: Antonio Costa, primo ministro del Portogallo, è estraneo alla vicenda di corruzione legata ad alcuni giacimenti di litio nel nord del Paese. La frase intercettata dagli inquirenti, infatti, era riferita ad Antonio Costa Silva, quasi-omonimo del capo di governo e Ministro per lo Sviluppo Economico, le cui effettive responsabilità rimangono comunque da accertare. 

Nel frattempo, però, Antonio Costa (quello estraneo ai fatti) si è dimesso. La maggioranza è caduta, chiudendo una stagione di governo importante che ha traghettato il Portogallo in anni complessi, tenendo la barra dritta in UE. Il presidente della Repubblica ha sciolto le camere, e le elezioni sono fissate per marzo. Antonio Costa non parteciperà alle prossime elezioni, e se prima era papabile per il posto di Presidente del Consiglio dell’UE, ora può probabilmente considerare chiusa la sua parabola politica. 

Questa storia, tremenda e ridicola al tempo stesso, ripropone il cortocircuito tra politica e potere giudiziario, e si presta a due considerazioni. La prima, triviale e abusata, ma urgente, attiene alla mediaticità delle inchieste. Se un banale caso di omonimia basta a far cadere un governo è perché spesso il sistema mediatico ha allevato un’opinione pubblica pronta a scattare di fronte a ogni minimo sospetto di reato; anzi, spesso di fronte a ogni minima parvenza di immoralità, abbia essa o meno un rilievo giuridico.

La stessa dinamica che, per rimanere in area lusofona, ha agito in Brasile nel caso Petrobras, facendo cadere il governo di Lula e portando al potere Bolsonaro, in una vicenda politico-giudiziaria che presenta diversi dubbi di legittimità, solo per poi scoprire che le cose stavano diversamente, riammettendo Lula tra le figure cangiabili (e infatti ora è nuovamente al governo). La stessa dinamica, per rimanere in UE, che agito sul Qatargate: sembrava coinvolta ogni persona legata al Parlamento Europeo; anzi no, solo i socialisti; anzi no, solo alcuni soggetti isolati; anzi no. Oggi di quella storia rimane poco, e non è ancora chiarissimo l’esito delle indagini. Hanno ucciso l’Uomo Ragno (forse), chi sia stato non si sa. 

La seconda considerazione è che la vicenda Costa è così assurda da porre le basi per una risposta politica. Perché è ormai evidente che, in un contesto mediatico-giudiziario in cui basta un nonnulla per screditare istituzioni, rovinare vite e carriere e far cadere governi, serve spezzare il circolo vizioso. 

Di fronte alla violenza mediatica e alla mentalità forcaiola diffusa è tempo che gli Antonio Costa di ogni ordine e grado ribadiscano, affianco al dovere di svolgere le proprie mansioni con disciplina e onore, la necessità di difendere lo stato di diritto, rifiutando di dimettersi di fronte a nulla di concreto, difendendo la democrazia rappresentativa e la separazione dei poteri alla base di ogni Stato moderno degno di essere definito tale. 

Di fronte alla barbarie culturale, alla folla che si eccita quando vede le manette, difendere il piano politico, e la sua autonomia nel rispetto dei poteri dello Stato significa difendere i valori fondanti europei, significa ribadire la dignità delle cariche politiche e la responsabilità connessa alle loro scelte (non è secondario che la vicenda riguardi la facilitazione a stabilire miniere di litio, un materiale su cui si gioca parte della tanto sbandierata autonomia strategica europea). Altrimenti, il rischio è che a voler fare i signori, si finisca poi a passare per coglioni. 

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