Non so come, fino a due mesi fa, rispondessi ai messaggi che contenevano link a notizie assurde, messaggi che come tutti voi ricevo a decine ogni settimana, essendo ormai il numero di notizie che ci paiono folli o paradossali o insensate parecchio superiore alla capienza della nostra attenzione.
Da due mesi, uso sempre una vignetta disegnata da Evan Lian e pubblicata a settembre sul New Yorker. C’è un ring di boxe, i due pugili negli angoli, e in mezzo l’annunciatore che dice: «In questo angolo, un tizio che descrive tutto come “orwelliano”, e in quest’altro angolo uno cui piace molto dire “kafkiano”».
La storia di oggi è orwelliana, è kafkiana, ma soprattutto è la storia che mi ha fatto capire che la postverità è un falso problema: il guaio è che viviamo nell’era della postverosimiglianza.
Un po’ gli strumenti non incentivano la riflessione – mica mi starete dicendo che, in quei venticinque secondi in cui, al cesso, spollicio il cellulare, devo mettermi a vagliare ciò che cuoricino o condivido – e un po’ la deriva irrazionale del mondo rende tutto verosimile, e questo da ben prima dei social: se ai nostri nonni cinquant’anni fa avessero detto che mangiare la mortadella era una forma di militanza adottata da un parlamentare, avrebbero chiesto il ricovero in manicomio di chi lo ipotizzava; poi quindici anni fa è diventato vero, senza prendersi il disturbo di passare per la verosimiglianza.
Quindi, nel regno dell’inverosimiglianza, qualche giorno fa inizia a girare una lettera con sei firme. Il testo è di facile socializzazione, essendo breve e avendo gli abitanti di questo secolo la soglia d’attenzione dei moscerini.
«Lettera aperta alla direzione didattica della Scuola Holden – I sottoscritti docenti chiedono che davanti all’opera di genocidio perpetrata dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese il consiglio della didattica esprima una posizione certa e non derogabile a pareri personali dei singoli docenti su quanto sta avvenendo in questi giorni. I nostri studenti senza esitazione ci hanno dimostrato di voler essere protagonisti di un cambiamento culturale contro il patriarcato e il colonialismo, una modalità didattica che trova pieno svolgimento nella nostra opera quotidiana ma che viene stravolta da alcuni docenti e responsabili di sedi esterne creando problemi di identità alla nostra missione educativa. Chiediamo quindi alle direzione di didattiche di esprimersi senza paura su questi comportamenti singoli, giustificazionisti dei massacratori israeliani, che portano in dote fake news e notizie non verificabili per sbilanciare il piano comunicativo. Essere oggi accanto al popolo palestinese contro l’aggressione sionista israeliana vale di più di ogni sforzo didattico o fondo privato che sostiene la nostra scuola».
Prima di proseguire con la cronaca, è il caso di soffermarci sul crollo delle istituzioni, una delle questioni che più hanno contribuito a portarci nell’era della postverosimiglianza. Una volta esisteva un portato culturale delle classi sociali – i milionari non postavano didascalie sgrammaticate su Instagram – ma soprattutto un portato culturale delle istituzioni culturali.
Leggevamo che una certezza veniva da uno studio realizzato a Harvard, e ci illudevamo di poterci fidare. Poi sono arrivati i social, e qualunque imbecille scriva una cosa che se la dicesse nostro cognato al pranzo di Natale ci sotterreremmo dalla vergogna, su quel qualunque imbecille ci clicchi e ci trovi una cattedra, un dottorato, una sfilza di Ivy League. Almeno nostro cognato fa l’elettrauto.
Qualche tempo fa mi hanno raccontato che un docente della Holden ha fatto vedere alcune puntate di “The Office” agli allievi, agli allievi iscritti a una scuola per diventare creativi, autori, intellettuali, e che gli allievi si sono offesi per la cattiveria delle battute e delle situazioni e hanno protestato con la direzione.
Come tutti noi per cui la verità non è un criterio, non ho verificato se la storia fosse vera, ma non ho esitato a crederci. Era verosimile che alla più prestigiosa scuola di scrittura d’Italia fosse iscritta gente che non ha mai guardato Ricky Gervais, e che se lo guarda si offende; era verosimile che persone totalmente inadeguate accedessero a istituzioni che un tempo sarebbero state garanzia di qualcosa.
E quindi io li capisco quelli che hanno letto quelle righe in cui si chiedeva l’allontanamento dei docenti israeliani – pochi giorni fa, alla Holden aveva tenuto una lezione Ilan Pappé, storico israeliano che insegna in Inghilterra – e non si sono posti il problema della verosimiglianza delle firme.
Del fatto che a chiedere che agli israeliani non fosse permesso parlare fossero Loredana Lipperini, Elena Varvello, Matteo Nucci: non influencer che scrivono Palestina coi numeretti convinti che l’algoritmo li discrimini, ma intellettuali che una volta avremmo dato per scontato non sottoscrivessero appelli da assemblea d’istituto.
Oggi non lo diamo per scontato, ma più ancora non ci poniamo il problema. E fa tenerezza guardare le foto della questura di Torino postate da Loredana Lipperini, così novecentesca da credere nella tutela della reputazione, che è andata a denunciare ignoti per essersi appropriati del suo nome.
Ha fatto bene, lo dico senza alcuna ironia, ma – poiché conosco le regole della postverosimiglianza e ve ne farò dono – so che ora succederanno due cose. La prima è che inevitabilmente ci sarà gente che vedrà la lettera e non le smentite, e quindi resterà convinta che lei e gli altri abbiano firmato quel verbale da assemblea d’istituto contro il patriarcato e il colonialismo. Andreotti aveva torto: una smentita non è una notizia data due volte, una smentita è una goccia perduta nell’algoritmo.
L’altra cosa che accadrà è che qualcuno se ne dovrà occupare, di questo cretino, o cretina, o gruppo di cretini che ha messo sotto un testo dei nomi di intellettuali che quel testo non l’avevano mai visto, di questo nostalgico degli appelli contro Calabresi che voleva fare un po’ di casino, di questo Jannacci in sessantaquattresimo che voleva stare a vedere l’effetto che fa.
E, tecnicamente, chi se ne deve occupare è la Digos, cioè quelli che investigano sulle attività terroristiche. E quindi, come ogni volta che qualcuno sui social annuncia denuncia contro qualcun altro che gli ha detto «ma sei scemo?» o simili, io penso: ma con le mie tasse? Ma veramente vogliamo intasare i tribunali con queste stronzate?
L’avrei denunciato anch’io, uno che avesse firmato col mio nome una cosa non scritta da me, figuriamoci: ho pensato per anni di denunciare mia madre che quando morì mio padre pubblicò un necrologio scritto nel di lei italiano ma firmato da me, sembrandole più grave che non ci fosse un mio necrologio che non che qualcuno potesse pensare che mi esprimessi per frasi fatte (il mio vicino di casa mi disse «ho visto il tuo necrologio»: avrei dovuto capirlo quel giorno, che eravamo nell’era della postverosimiglianza).
L’avrei denunciato epperò vorrei una riforma del codice penale in cui il cretino del caso viene condannato a studiare di cosa si dovrebbe occupare, la Digos, invece che delle sue puttanate. E, già che ci siamo, anche ad apprendere un uso parco ma corretto di «orwelliano» e «kafkiano»: in questo caso, vanno bene entrambi.