I geo influencer La delegittimazione di Israele e la riscrittura della storia via Instagram

Sui social si parla tantissimo di decolonizzazione, di atteggiamenti scorretti dello Stato ebraico e di altre cose che non aiutano il dibattito pubblico, ma appiattiscono il discorso col solo scopo di incanalare l’indignazione e travestirla da comprensione del fenomeno

AP/Lapresse

I tentativi di riscrittura della storia accompagnano la carrellata degli orrori a uso e consumo dei social network durante questo nuovo conflitto tra Hamas e Israele. Sono questi i due filoni osservabili nella reazione delle pubbliche opinioni: da una parte, la condivisione compulsiva di materiale che mostra le atrocità della guerra, senza che sia rilevante aggiungere nient’altro alla potenza evocativa dell’immagine; dall’altra, la proliferazione di “caroselli” Instagram impiegati per “mettersi in pari” con una storia vecchia almeno cent’anni, in modo da poter attribuire credibilità alle suddette carrellate («educate yourself», come dicono gli americani, a patto che non si usino libri).

Questo secondo filone è, in realtà, tragicamente il più dannoso, perché pretende di attribuire credibilità a pagine di influencer, cosiddetti divulgatori, attivisti che mischiano il lessico della battaglia politica – sensazionalistico, semplicistico, moralista – con quello di alcuni termini in voga in ambito accademico.

Uno di questi, forse il più indicativo, è quello dell’approccio post-coloniale: «Decolonize», scrivono su X, Instagram e TikTok. Bombardano gli account che esprimono opinioni diverse con «decolonize your mind» condividendo link di “Decolonize Palestine”. Definiscono Israele una «colonial ethnocracy». Scrivono che «la pulizia etnica, l’occupazione e il genocidio sono la premessa della nascita di Israele».

Naturalmente, lo strumento serve allo scopo di delegittimare: se è un prodotto coloniale, nato su presupposti intrinsecamente malvagi, Israele perde ogni legittimità storica e politica. È, al fondo, la premessa metodologica di qualsiasi equivalenza – morale, prima ancora che politica – tra l’attentato di Hamas e i movimenti di resistenza. È la cornice dello slogan da più parti ripetuto: «Il 7 ottobre il popolo palestinese ha dimostrato che sono ancora i popoli a scrivere la storia». Il problema non è solo di natura analitica (come ha spiegato Anna Momigliano in un articolo che arricchisce enormemente il dibattito, molti ferventi anti-israeliani confondono colonialismo e Stati “settler-colonial” per demonizzare Israele). La pericolosità dell’idea di “decolonizzare” applicata a Israele sta innanzitutto nel fatto che se gli israeliani sono colonizzatori, e dunque espressione di una potenza coloniale, allora è legittimo cacciarli.

Il punto è che gli ebrei israeliani non sono niente di tutto questo: non hanno e non hanno mai avuto una patria coloniale a cui tornare, perché dai propri Paesi di provenienza sono fuggiti a causa di persecuzioni o espulsioni nel corso dei secoli. Il tentativo di falsificazione storica finge di non vedere le enormi differenze che esistono tra il colonialismo europeo e le ondate di immigrazione in terra d’Israele.

Se il colonialismo nasce come conquista politica di un territorio e sfruttamento delle sue risorse da parte (e a vantaggio) di una potenza imperiale, le origini di Israele sono tutt’altre: innanzitutto, il popolo ebraico non ha mai lasciato quella terra, anche nei secoli in cui la abitava da minoranza.

Inoltre, nessuna delle ondate di immigrazione nella Palestina ottomana e poi britannica agiva come longa manus di una potenza coloniale: gli ebrei fuggivano dai territori di provenienza (molti, non uno solo) a causa delle persecuzioni, avevano reciso i legami con una madre patria che non consideravano tale, acquistavano e lavoravano in proprio le terre per autodeterminarsi come collettivo (come ha specificato la storica Anita Shapira) e si impegnavano a ri-costruire una cultura che riunificasse una diaspora in quella che consideravano la propria terra ancestrale. Che questa autodeterminazione si sia scontrata con quella legittima degli arabi è un fatto incontrovertibile con cui ci misuriamo tragicamente tutt’oggi, ma ciò non diminuisce la portata ideologica del sionismo come esperienza di liberazione nazionale, certamente come una forma di nazionalismo più che come una forma di colonialismo.

Infine, c’è il rapporto con l’ultima potenza coloniale presente sul terreno: l’impero britannico, che ha governato quel territorio dal 1920 al 1948. «Combatteremo in guerra come se non ci fosse nessun libro bianco e combatteremo il libro bianco come se non ci fosse nessuna guerra», diceva David Ben-Gurion riferendosi alla Seconda Guerra Mondiale e al libro bianco britannico che bloccava l’immigrazione ebraica in Palestina.

Il rapporto altalenante di necessaria trattativa e di aspra lotta tra sionisti e britannici coinvolgeva la quotidianità della vita degli ebrei di Palestina, fatta eccezione per la collaborazione contro il nazismo che portò alla nascita della Brigata Ebraica. La precedente dichiarazione Balfour (1917), secondo cui il governo di Sua Maestà vedeva di buon occhio la nascita di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina, non impedirà ai governi britannici di assumere una posizione di crescente ostilità nei confronti delle istituzioni degli ebrei di Palestina, anche per non scontentare gli arabi.

In ogni caso, tale dichiarazione è successiva alla nascita del sionismo, alle prime ondate migratorie di ebrei e anche ai primi scontri con la popolazione araba, come spiega efficacemente lo storico Benny Morris. Per quanto questo produca corto-circuiti nella lettura bidimensionale degli avvenimenti, Israele appare più un prodotto del processo di decolonizzazione.

Il proposito politico contemporaneo di “decolonizzare” la Palestina appare preoccupante. Si tratta di uno slogan facile da consumare, adatto alla guerra delle pubbliche relazioni, ma che non spiega niente della storia e delle due ragioni che stanno alla base delle rivendicazioni su quella terra. Come sempre, questi slogan appiattiscono, livellano, spogliano i termini del proprio significato per produrre una lettura manichea della realtà, in modo da rendere i contenuti digeribili per i follower.

Il lessico accademico viene caricato così di significati politici per dare credibilità alla propria battaglia, e il gioco è fatto: Israele Stato coloniale dunque illegittimo, e se è illegittimo il 7 ottobre è resistenza. Così facendo, peraltro, si opera una generalizzazione che uniforma una società estremamente plurale nelle sue voci, alcune delle quali potrebbero essere sostenute anche da chi si considera militante della causa palestinese, se proprio si volesse contribuire positivamente a cambiare le cose che giudichiamo sbagliate.

Ne dico una: molti israeliani contestano gli insediamenti in Cisgiordania; demonizzare e bollare l’intero collettivo di cui questi israeliani fanno parte come illegittimo non vedo come possa aiutare lo scopo. Ammesso che lo scopo sia quello, naturalmente.

L’approccio degli instagrammer post-moderni ha alle spalle un’agenda politica, e non ha a che vedere con la conoscenza degli strati di cui si compone la storia del conflitto israelo-palestinese. Questo tentativo di de-costruire fino a togliere il senso alle parole non aiuta la discussione pacata sul conflitto, ma incanala la nostra indignazione e la traveste da comprensione del fenomeno. È un metodo sbrigativo che dovremmo contestare a prescindere dalle opinioni sulla guerra in corso, perché è “contestualizzazione” a parole e “pigrizia intellettuale” nei fatti.

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